Pubblicato il 22/03/2018, 18:02 | Scritto da Gabriele Gambini

Lo squadrone – Dispacci dalla guerra di ‘ndrangheta su Rai 2: parla Claudio Camarca, autore e regista

Lo squadrone – Dispacci dalla guerra di ‘ndrangheta su Rai 2: parla Claudio Camarca, autore e regista
TvZoom ha intervistato l'autore e regista della serie factual che racconta il mestiere dei Carabinieri Cacciatori di Calabria, reparto dell'Arma costituito per dare la caccia ai latitanti di 'ndrangheta, in onda ogni mercoledì per quattro puntate in seconda serata su Rai2.

Claudio Camarca: “Il filo rosso delle quattro puntate è la caccia a due pericolosi latitanti. Attorno a questo macrotema si inseriscono microaree che documentano l’attività dei Carabinieri Cacciatori: chi sono, che vita fanno, come conducono le loro azioni in Aspromonte”

Si potrebbe semplificare dicendo che è una lotta tra bene e male, quel che vedremo nel factual Lo squadrone – Dispacci dalla guerra di ‘ndrangheta (Rai2, dal 21 marzo ogni mercoledì in seconda serata), prodotto da Clipper Media, scritto e diretto da Claudio Camarca. Ma ridurre la portata documentaristica di un lavoro tanto ampio a un’etichetta sarebbe manicheo. Non renderebbe giustizia al primo tentativo televisivo di ricostruzione sul campo della vita, del mestiere e dei tratti distintivi dello Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori di Calabria, nucleo operativo interno all’Arma costituito nel 1991 per dare la caccia ai più pericolosi latitanti di ‘ndrangheta e smantellare le loro attività. Quel che emerge dalla docu-fiction, costata due anni di ricerca e oltre 4 mesi di riprese, è la fotografia di un territorio che diventa ritratto di un Paese intero.

Con i racconti dei militari e delle loro azioni da eroi del quotidiano a stipendio fisso di dipendente statale. Con la capacità di illuminare coni d’ombra in cui le mafie proliferano per ragioni culturali e per assenza di servizi. Portando in dote un corollario inaspettato di consuetudini. «La maggioranza dei carabinieri che intervistiamo sono calabresi d’origine. Hanno scelto consapevolmente di arruolarsi nei Cacciatori per contribuire alla rinascita della loro terra e per dare ai loro figli un futuro possibile», dice Camarca.

Prima domanda: che contenuti dobbiamo aspettarci?

Il filo rosso delle quattro puntate da cinquanta minuti ciascuna è la caccia a due pericolosi latitanti. Attorno a questo macrotema si inseriscono microaree che documentano l’attività dei Carabinieri Cacciatori: chi sono, che vita fanno, come conducono le loro azioni in Aspromonte, che rapporto hanno col territorio, qual è la loro preparazione specifica e quali equipaggiamenti utilizzano. Come conseguenza emerge anche il racconto della ‘ndrangheta come forza criminale strutturata: la sacralità dei rapporti familiari, il substrato contadino nel quale nasce e si sviluppa come una delle mafie più potenti del mondo, le sue liturgie particolarissime.

Quali sono i numeri che contraddistinguono questo particolare reparto di carabinieri?

Lo Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori di Calabria è stato fondato nel 1991 per combattere la piaga dei sequestri di persona. Oggi dà la caccia ai latitanti, distrugge le piantagioni di canapa e combatte il narcotraffico: negli anni ha arrestato oltre 8000 persone, catturato 285 latitanti, e scovato più di 400 bunker.

Chi sono, questi carabinieri?

Hanno un’età variabile tra i 25 e i 45 anni, tutti si sono arruolati nel reparto volontariamente, la stragrande maggioranza di loro è o calabrese, o pugliese o campana. Dicono di farlo per i loro figli e ci credono davvero. Hanno chiesto di poter essere dislocati nel loro territorio di nascita con vocazione sincera. Sono convinti che il loro lavoro, specializzato e pericoloso eppure pagato poco più di quel che si pagherebbe un impiegato, contribuisca a fare affermare la parte sana della regione, garantendo prospettive generazionali. Ma sono consapevoli di essere solo la punta di lancia di qualcosa di complesso. «La prima via per rilanciare i territori egemonizzati dalle mafie è l’educazione, la costruzione di infrastrutture efficienti, la cultura», specificano.

Vi siete infiltrati assieme a loro durante operazioni insidiose.

Le riprese sono durate complessivamente 4 mesi, dopo un paio d’anni di lavoro di ricerca. Si cominciava alle 2 di notte e si finiva alle 6 del pomeriggio. Ho cambiato diversi operatori, nel mio team. A fine ottobre, quando abbiamo terminato, io stesso ho avuto un collasso. Questo perché ci siamo dovuti adeguare in tutto e per tutto alle modalità operative dei protagonisti che filmavamo.

Come si garantisce l’efficacia delle riprese e l’autenticità del vissuto in un contesto tanto complicato?

Stabilendo in primis un rapporto di fiducia con le squadre di carabinieri. All’inizio ero visto giustamente come un intruso, i rapporti umani sono stati coltivati sul campo giorno dopo giorno nella consapevolezza che la gestione di una relazione interpersonale in un contesto del genere è fondamentale per conseguire l’obiettivo. Io e la mia troupe abbiamo imparato a vivere come loro. E siamo arrivati a festeggiare assieme a loro la cattura di un latitante durante una cena che loro hanno come rito privato ed esclusivo: segno tangibile che siamo stati accettati.

Operativamente come vi siete suddivisi i compiti?

I carabinieri si suddividono in cinque squadre di “falchi”, così vengono chiamati in gergo, formati da 4 o 6 unità. La nostra troupe si divideva in gruppi di due o tre persone, muniti di equipaggiamento per le riprese, osservandoli da vicino, intervistandoli nei momenti di pausa. Quando si diventava operativi, bisognava essere silenziosissimi. Spesso si facevano lunghe camminate sull’Aspromonte con un clima torrido per garantirsi punti d’osservazione. Nei momenti ludici tra un’azione e l’altra si condivideva la quotidianità.

Per ottenere risultati spendibili dovevate attendere molto?

Sequestrare una piantagione di canapa o arrestare un latitante è un lavoro complesso, fatto di appostamenti che a volte non vanno a buon fine, infiltrazioni sul territorio, studi articolati. Poi subentra la parte operativa, fatta di azioni condotte nel cuore della notte, perquisizioni nei casolari dei familiari dei latitanti, scoperte di bunker e cunicoli adibiti ad abitazioni.

Che cosa viene portato alla luce, del tessuto territoriale?

Che la ‘ndrangheta non è composta solo da boss che fanno la bella vita, come si potrebbe pensare. La stragrande maggioranza dei suoi componenti è fatta di personaggi che conducono una vita miseranda senza alternative, spesa per esempio a coltivare piantagioni di canapa per poche migliaia di euro. Non è solo una questione di soldi, ma di esercizio di un potere, di un diritto di vita e di morte sul prossimo. Dietro il business di una forza criminale che gestisce il 75% del narcotraffico europeo ci sono liturgie inaspettate, spesso una deformazione del modo di intendere i riti religiosi, che diventano rappresentazione di affiliazioni. Oltre a legami familiari solidi, e al racconto di un territorio con profonde lacune infrastrutturali. Senza scordare i legami tra la malavita calabrese e quelle colombiana e messicana, perpetuati attraverso affari e matrimoni combinati.

Com’è il rapporto tra i carabinieri e il territorio?

In generale, la popolazione dei paesi in cui i Cacciatori operano li rispetta e li identifica con lo Stato. Spesso le informazioni più preziose sui latitanti vengono proprio dalle chiacchierate fatte col pastore di turno o con il barista del paesino. Questa forma di rispetto reciproco viene avvertita anche durante le perquisizioni notturne nelle case dei sospetti. C’è un momento del documentario particolarmente emblematico: i militari bussano alle tre di notte in un casolare per effettuare una perquisizione, la padrona di casa apre e, mentre loro cercano un bunker sotterraneo, prepara il caffè e lo offre a tutti.

Che cosa significa questo?

Significa che, nonostante tutto, c’è una forma di riconoscibilità precisa dell’altro. Rappresentativa di una realtà locale complessa, diversa da un’indagine che potrebbe avvenire in una grande città.

Con una conseguente mitizzazione narrativa del mestiere di carabiniere?

Al contrario. Con un racconto vero, senza filtri di nessun genere, tanto meno apologetici, di un mestiere indispensabile svolto da uomini ordinari. Portatori di un’umanità riconoscibile, varia nei toni e nelle forme. Narriamo aspetti poco noti della lotta alle mafie, denunciandone i crimini, ma soprattutto forniamo esempi di una professione nobile, mai sotto i riflettori, che incarna le energie positive dell’Italia.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto un’immagine de Lo squadrone – Dispacci dalla guerra di ‘ndrangheta)