Pubblicato il 24/09/2017, 16:01 | Scritto da La Redazione

Christian De Sica: Quando mio padre disse no a Goebbels

Al debutto sul palco avevo 23 anni, incitato da Josephine Baker. fu l’unica volta che Vittorio mi vide recitare

 

 

Rassegna Stampa: Il Messaggero, pagina 19, di Marco Molendini

 

Faccia a Faccia

Il figlio del regista di “Ladri di biciclette” si racconta a 360 gradi. Dagli esordi nel varietà con Falqui al sogno di girare un film sulla storia d’amore dei genitori. A partire dal rifiuto di seguire i nazisti

«Quando mio padre disse no a Goebbels»

INCONTRAI CHAPLIN ALL’HOTEL FLORA ERO PICCOLISSIMO PER TUTTO IL TEMPO GIOCÒ CON LA BOMBETTA FACENDOLA ROTEARE

AL DEBUTTO SUL PALCO AVEVO 23 ANNI, INCITATO DA JOSEPHINE BAKER. FU L’UNICA VOLTA CHE VITTORIO MI VIDE RECITARE

 

L’INTERVISTA

«Gli intellettuali non perdonano i comici. Quando fece Lo sceicco bianco, Fellini dovette quasi nascondere Alberto Sordi, che era il protagonista e non figurava neppure nei cartelloni. Anche papà Vittorio era guardato male, perché aveva fatto Pane, amore e fantasia e tanti film leggeri.». E lei, Christian, star dei cinepanettoni, se la prende? «Quei bistrattati film di Natale hanno raccontato la borghesia italiana meglio di molti film d’autore e io ne sono orgoglioso». Però ha pagato un prezzo? «Pensano che io possa fare solo l’attore comico, per questo non sono riuscito a fare il film sulla storia d’amore fra papà e mamma. La sceneggiatura è pronta da anni, ma nessuno me l’ha fatto girare. A un certo punto, avevo anche trovato un produttore americano, Harvey Weinstein, ma siccome gli andò male il Pinocchio di Benigni si è fermato e ha detto basta ai progetti italiani. Peccato, è una storia meravigliosa, racconta di quando nel ’43 papà si chiuse dentro la basilica di San Paolo per girare La porta del cielo, finanziato dai preti. Al posto del cast, però, c’erano centinaia di antifascisti e di ebrei che, così, riuscì a salvare. Il film era stato anche la scusa per dire no a Goebbels, il gerarca nazista voleva che andasse a Salò per rimettere in piedi il cinema italiano: gli rispose che non poteva, perché aveva promesso a papa Pio XII in persona di girare proprio La porta del cielo». Ha sudato molto per raggiungere il successo? «Ho sudato e tremato. Ricordo una sera allo Sporting club di Montecarlo. In platea c’erano Gene Kelly, il principe Ranieri con Grace, Sergio Mendes, Rudolf Nureyev. Dovevo dare il cambio a Josephine Baker, che si era esibita con le Blue Bells e me la facevo sotto. A salvarmi fu lei, la Baker, dandomi un bicchiere d’acqua e spingendomi sul palco. Fu l’unica volta che papà mi ha visto. Avevo 23 anni ed è morto poco dopo. Io e Manuel eravamo poco più che ragazzi. Ricordo quando arrivava e annunciava: «Scegliete dove andiamo in vacanza: Saint Vincent, Sanremo, Campione, Montecarlo», tutti posti dove c’era il Casinò». Era abituato, però, fin da bambino a incontrare personaggi famosi. «Charlie Chaplin l’ho conosciuto all’hotel Flora. Aveva incontrato papà a Los Angeles, che era andato a cercare i soldi per girare Ladri di biciclette chiamato da Howard Hughes. Parlò del progetto ma fu proprio Chaplin, a casa dell’attrice Merle Oberon, a dirgli che non andava bene per l’America: «E troppo presto, qui si gira negli studios, voi andate in strada. La gente non capirebbe». Qualche anno dopo andammo a salutarlo all’hotel Flora. Ero piccolissimo, ricordo che per tutto il tempo lui giocò con la sua bombetta facendola roteare fra le mani. A quei tempi papà stava girando Stazione Termini con Montgomery Clift, un dannato che allora era l’amante di Truman Capote, autore della sceneggiatura con Cesare Zavattini. Ricordo che un giorno venne a casa, abitavamo a piazza Bologna, e io e Manuel ci eravamo appena alzati dal vasino. Per giocare ci si mise a sedere lui. Quel vasino io non l’ho voluto più usare». Perché a 18 anni scelse di emigrare, addirittura in Venezuela? «Volevo vedere cosa ero capace di fare. Ho trovato lavoro come cameriere all’Hotel Tamanaco di Caracas, poi mi sono fidanzato con la figlia del Mike Bongiorno del Venezuela, Renny Ottolina. Mi fecero un contratto televisivo di cinque anni e tutto andava benissimo. Avevo successo, ma non ho retto, papà al telefono mi urlava: “Ma che stai a fare laggiù, il cretino?”. E sono tornato in Italia a finire l’Università, che poi non ho finito. Per fortuna, però, che son tornato: Renny Ottolina, che si era lanciato nella carriera politica, venne ucciso in un attentato». La tv, al ritorno in Italia, è stata la sua prima palestra. «Nei varietà di Falqui e Trapani. Ma ho fatto anche Sanremo. Era il ’73 e mi hanno cacciato subito. La canzone si chiamava Mondo mio. Ricordo che in albergo venne Milva a consolarmi: «Che ti frega, diceva, io sono arrivata terza, è ancora più triste». Ma con la musica ho anche vendicchiato. Con Il trenino, scritta da Migliacci per una serie televisiva, sono arrivato a 350 mila copie». Il suo esordio discografico sembrava una dichiarazione d’intenti fin dal titolo: “Anch’io ho qualcosa da dire”. «Era un 33 giri fatto di cover, alla Sinatra. Vendetti 80 mila copie. Allora se ne vendevano milioni, oggi sarei Vasco Rossi». Frank Sinatra è stato un suo eroe musicale, gli ha dedicato anche un film, The Clan. «Anche a papà piaceva moltissimo, pur non essendo un jazzofilo come noi, dico Manuel e io. Ma la nostra passione per il jazz e lo swing nasce quando tornò dall’America con un disco del grande pianista Art Tatum. Da lì abbiamo scoperto Gershwin, Cole Porter e via dicendo. Sinatra l’ho conosciuto un Capodanno al Lido di Parigi, ricordo solo che diceva come era difficile possedere uno yacht perché poi gli amici si piazzano e non se ne vanno più. Ma The Clan, purtroppo, è stato un insuccesso. In Italia le commedie musicali non le ama nessuno, ti tirano i pomodori se ti metti a cantare mentre parli. Una sera andammo a vedere con papà West Side Story di Leonard Bernstein al Quirino: c’erano due signori seduti davanti a noi e uno chiedeva all’altro: “Aho, me passi na Marlboro che me sto a rompe”». Il successo di La La Land sembra smentirla. «Per me è un mistero assoluto. The Clan, comunque, avrei dovuto farlo a teatro, dove ho sempre avuto successo e l’anno prossimo ci torno con Preludio, un concerto racconto attraverso le canzoni. The Clan fu una delusione così grande che non ho più voluto fare film da regista. Solo adesso mi è tornata la voglia. Sto scrivendo una storia con Fausto Brizzi, una commedia che cominceremo a girare da luglio». Intanto è in arrivo il nuovo cinepanettone. «Si chiama Poveri e ricchissimi e c’è un finale alla La La Land dove tutti cantiamo insieme una canzone di Tommaso Paradiso dei The giornalisti. Esce il 14 dicembre. Ma per Natale faccio anche un disco, Merry Christian, dove canto tutti i pezzi natalizi con una big band. C’è pure Astro del ciel». E nel frattempo è in televisione. «Quest’anno ho accettato di rifare Tale e quale show. L’anno scorso avevano detto che mi ero rifiutato per questione di soldi. Una fregnaccia. E’ solo che il film di Natale lo abbiamo girato tardi e avrei dovuto saltare le prime tre puntate». La famiglia De Sica fa ininterrottamente cinema da cento anni (Vittorio debuttò, appena sedicenne, nel 1917 con Il processo Bencivenga). E anche Brando, il figlio di Christian e Silvia Verdone, ha scelto il set (ha recitato come attore e girato due film da regista).