Pubblicato il 29/08/2017, 14:33 | Scritto da La Redazione

X Factor: Manuel Agnelli pronto per la nuova stagione

Manuel Agnelli, torna X Factor: “Sporcarsi le mani e non temere di dire certe cose in tv”

Rassegna stampa: La Repubblica, di Luca Valtorta.

L’ultimo periodo ha dato molte soddisfazioni a Manuel Agnelli: “È un momento felice. Con gli Afterhours, dopo una serie di concerti dedicati al nuovo disco, Folfiri o Folfox, e una seconda tournée europea, abbiamo ricominciato a suonare per festeggiare i nostri 30 anni di storia, facendo i pezzi che amiamo di più con ospiti provenienti dalle vecchie formazioni della band. È stato davvero bello ritrovarsi ancora insieme sul palco”. Adesso è arrivato il momento della nuova edizione di X Factor, la undicesima: dal 14 settembre in tv ci saranno le audizioni e, da metà ottobre, partiranno i ‘live’ con la gara vera e propria.

Cos’ha fatto in questi ultimi tempi?
«Molte cose. La più bella è stata la terza parte del tour degli Afterhours. Dopo quello dedicato al nuovo disco, Folfiri o Folfox, e quello europeo, stiamo facendo delle date per festeggiare i 30 anni di storia della band. Un tempo mi sarei fatto mille menate al pensiero di celebrare noi stessi, adesso ho deciso che non me ne frega più niente. È anche il bello dell’invecchiare: non voglio più essere ingabbiato da niente. Ci autocelebriamo? Sì, perché ce lo meritiamo, credo. Non dobbiamo più dimostrare niente a nessuno: facciamo quello che vogliamo e facciamo la musica che vogliamo. Mi sono reso conto che avevo proprio voglia di suonare e di chiudere un cerchio, per poi passare a nuovi progetti».

Che tipo di pubblico avete oggi?
«È molto vario: ci sono sicuramente persone arrivate per via del talent, ma che non sono necessariamente dei ragazzini; gente incuriosita dal personaggio, da quello che ho detto. Devo ammettere che mi fa piacere vedere persone fuori contesto, perché non vengono dalla stessa radice musicale né etica ma, semplicemente, apprezzano quello che fai. Non è una percentuale altissima: sarà più o meno il 20%. A questo corrisponde un ritorno dei fan storici che è come se volessero ribadire che noi siamo di loro proprietà, ma in una maniera bella però: è una manifestazione identitaria, come se dicessero ‘noi siamo quella roba lì’. Paradossalmente anche questo penso si debba alla televisione che, rimettendoci al centro dell’attenzione mediatica, ha contribuito a riaccendere una passione che per molti, col tempo, con le mille cose che hai da fare ogni giorno, si era sopita».

Quindi la tv non è necessariamente qualcosa di negativo?
«Dipende da come ci vai. Se porti i tuoi contenuti tutt’altro. Ricordo i Nirvana: il loro grande successo ha legittimato tutta una serie di altre realtà nel mondo. Noi Afterhours ci siamo sentiti legittimati: eravamo quella cosa lì! Avete visto che avevamo ragione noi a suonare quelle cose, ad avere quel tipo di attitudine? Nel piccolissimo penso che quella parte di ascoltatori stia provando lo stesso: una rivendicazione, un legittimo orgoglio, una riaffermazione di ciò che loro stessi sono stati attraverso di noi. L’atmosfera è proprio bella. Il pubblico è molto partecipe ma anche molto rispettoso, non cerca mai di cambiare il corso del concerto come è successo a volte in passato».

Cosa accadeva?
«La mania di protagonismo colpisce chi sta sul palco quanto chi sta sotto, per cui poteva succedere che venissero richieste certe canzoni cui seguiva una protesta se non le eseguivi, manco fossimo un jukebox, oppure pogando sulle ballate tanto per fare casino. Adesso lo scambio invece funziona davvero…».

Non le dà più fastidio quando cantano in coro, insieme a lei?
«No, anzi, sono io stesso che li incoraggio a farlo in certi punti. Certo, non è punk. Per il nostro pubblico non siamo più disturbanti: siamo confortanti. Il nostro pubblico ritrova delle cose, non è sconcertato. Chiaramente continuiamo a essere punk per il pubblico mainstream che magari è un po’ spaventato dalla faccia che abbiamo ancora prima che dalla musica. Del resto io ho 51 anni, credo sia giusto che il mio ruolo si trasformi e che da disturbatore possa avere un ruolo positivo a livello di energia».

In teoria questo è il momento in cui l’indie ha acquistato proprio quello spazio per cui lei, in prima persona, ha tanto lottato nel corso degli anni, per esempio con il festival Tora! Tora!, negli anni Novanta, che metteva insieme, in un tour, le band della scena.
«Sull’indie di oggi ho già espresso la mia posizione e non vorrei reiterarla. Le cose sono cambiate tanto in questi anni e non c’è dubbio che si sia perso tutto un tipo di percorso, se ne è perso anche il senso. Dal mio punto di vista la perdita più grave è che si sia smesso di usare la musica anche come messaggio sociale, mentre è rimasto solamente l’utilizzo del messaggio emotivo. Però è anche giusto, perché la musica è lo specchio dei tempi e della società che si vivono. È comunque importante che esista una scena e che ci sia qualcuno che si riconosce in qualcun altro, creando quindi un fenomeno di aggregazione. In un momento come questo, in cui non ci sono punti di riferimento di alcun tipo, è comunque importante anche se sono convinto che la generazione dei giovanissimi stia cercando qualcosa di forte che rappresenti davvero ciò che sentono. Cercano qualcosa di potente e adesso non c’è niente di potente».

Cosa potrebbe essere?
«Non dobbiamo capire per forza cosa succederà. Ma succederà. L’arte, la musica, sono l’espressione di un’urgenza che prima o poi trova una sbocco».

Tornando a X Factor, perché ha accettato di rifarlo?
«Perché mi sono tranquillizzato molto rispetto al mezzo televisivo che faceva così paura alla mia generazione. Quello che ho scoperto è che non è tanto pericoloso il mezzo in sé ma il sistema di comunicazione che gli sta intorno: un non-giornalismo che metodicamente e scientemente stravolge qualsiasi evento o dichiarazione nel tentativo di creare il cosiddetto ‘scoop’, che poi genera l’inevitabile polemica. Mai come oggi, con l’avvento di Internet e in particolare dei social network, questo aspetto è diffuso».

Le cosiddette fake-news.
«Preferisco chiamarle con un termine meno elegante: le balle. Che rendono davvero difficile comunicare qualsiasi cosa. Io a X Factor ho la massima libertà ma il metodico stravolgimento di ciò che dico rende praticamente impossibile far passare un discorso sensato. Quando ci sono i ‘live’ tutto sommato va meglio, perché almeno sussistono le immagini a fare testo, ma il processo di comunicazione prima e dopo, su cui io speravo di lavorare per portare avanti dei temi a cui tengo come gli spazi per la musica, le leggi per la tutela degli artisti e così via, vengono svuotati di ogni significato. Tanto che ho dovuto cambiare modalità di approccio: devo pensare in anticipo a come un concetto che esporrò potrà venire stravolto e quindi usare un approccio più ‘strategico’ e meno sincero, che è pericolosissimo e che non vorrei adottare. Adesso non basta dire ciò che pensi: devi capire come potrebbero manipolarlo, così finisci per non dire più niente».

Come sarà a X Factor?
«Per me non è importante tanto vincere quanto continuare a portare avanti un discorso identitario sulla qualità della musica, un certo modo di viverla. La gente oggi è completamente destrutturata: ti contestano dicendo ‘quanti biglietti hai venduto?’, ‘quanti stadi hai fatto?’. Bene, io credo sia importante ribadire che c’è una visione della musica che non dipende dai numeri ma dalla necessità espressiva, una cosa che fa parte della vita, non del lavoro. Andrò controcorrente ma il discorso per me va riportato ai massimi sistemi: la musica, l’arte, l’espressione. È tutto troppo votato all’efficacia, ai risultati, e purtroppo per questo sta uscendo… un mare di merda! Ci troviamo in una cloaca gigantesca e finché la gente non capirà che non sono i numeri a determinare l’importanza o meno di un’opera non ne usciremo».

Come fare a cambiare le cose?
«Sporcandosi le mani: non avendo paura di dire certe cose in tv. Raccontando per esempio che il disco più importante della storia del rock non è un disco dei Beatles o dei Rolling Stones mail primo album dei Velvet Underground, quello con sopra la banana disegnata da Andy Warhol. In America, appena uscito, ha venduto 2000 copie, negli anni Sessanta: un completo flop. Eppure ha cambiato completamente il modo di pensare alla musica ed è ancora oggi il disco che tutti gli artisti più importanti citano come maggiore influenza».

Quali sono le novità di quest’anno?
«La novità più grande è lo sforzo che X Factor sta facendo per riportare la musica al centro. C’è un punto che vale la pena di sapere: l’X Factor italiano è il migliore al mondo e questo lo dicono gli inglesi stessi. Persino rispetto al loro, che funziona benissimo ma ha un impianto molto tradizionalista e non riserva grandi sorprese. In futuro, comunque, quello su cui punteranno di più saranno le nuove tecnologie come il 3D o l’interazione con il pubblico ma anche la qualità, e l’X Factor italiano è il loro esperimento sulla qualità dei contenuti. In questo contesto si cercherà di stare attenti, per la prima volta, alla parte autorale, cioè ai ragazzi che scrivono le canzoni da sé e non solo agli interpreti. L’altro giorno ero a Rovereto e ho letto Il Manifesto del Futurismo in cui si diceva che solo l’autore può entrare nell’anima dell’opera: è chiaro che si tratta di una posizione estrema, però le ultime cose che mi sono piaciute, dagli Arctic Monkeys ai Radiohead, sono tutte fatte da autori. E poi non ci saranno più sale prove e quindi ci si potrà vedere con i ragazzi sempre e non solo in certi giorni; ci sarà finalmente un pianoforte sul palco: prima non si poteva portare un pezzo piano e voce, adesso sì. Non è una cosa da poco. Ci sarà molto più live, insomma. Inoltre, per le selezioni, questa volta siamo andati in posti un po’ lontani dalle principali città come Roma e Milano. Io avrò le band e sono molto contento di questo».

Ha già visto qualcosa di interessante?
«Sì, ho visto alcuni musicisti che hanno una personalità molto forte. Secondo certi canoni non hanno troppe possibilità ma secondo me non è detto, perché vista la banalità di quello che si ascolta oggi in giro forse vale la pena osare con qualcosa di più libero, anche se più impegnativo. I ragazzi con cui lavorerò scrivono già i loro pezzi, per cui partono con un’altra impostazione».

E gli altri giudici?
«X-Factor è stata coraggiosa: ha scelto Levante che è una persona non superfamosa, giovanissima e che viene da un ambiente in cui ci si fa da soli: non un attore, non un personaggio della tv, ma una musicista. E questo il pubblico continua a non capirlo: si chiede ‘chi è?’, ‘cosa fa?’. Be’, è una persona vera, che sta facendo qualcosa, non un’opinionista, un tronista, ma una che ha voce in capitolo e già questo per me significa fare televisione alta».

Mara Maionchi?
«È una grandissima professionista con una cultura pazzesca sul cantautorato non solo italiano, per cui il confronto con lei è sempre interessante. E poi è molto simpatica».

Mentre Fedez rappresenta il mondo dell’hip hop.
«Mah, in realtà lui viene anche dal pop punk di gruppi come i Blink-182 o gli Offspring e ha un fiuto per le cose più mainstream, una caratteristica che unisce alla capacità di interagire bene con le nuove tecnologie».

Con lui siete stati rivali nel finale della scorsa stagione. Con la sua Eva sta mantenendo un contatto?
«Sì. Sto lavorando con lei nella maniera secondo me più sana, cioè quella di scrivere dei pezzi, mettere a fuoco un’identità e fare un percorso musicale non dopato rispetto al trovare un tormentone e poi scomparire. Intanto quest’estate si è fatta delle esperienze pazzesche: ha aperto tutto il tour di Carmen Consoli, ha suonato per Battiato, per Eddie Vedder, un paio di concerti nostri. Insomma, sta diventando una musicista vera e non un fenomeno televisivo. Ha un grande talento e sta lavorando al suo disco con i tempi. Credo di averci azzeccato con lei».

 

(Nella foto Manuel Agnelli)