Pubblicato il 03/07/2017, 13:31 | Scritto da La Redazione

Elena Ferrante e la sua amica geniale che va in Tv

Elena Ferrante e la sua amica geniale che va in Tv
Elena Ferrante spiega il rapporto tra la sua scrittura e la lunga serie televisiva che verrà tratta dai suoi quattro romanzi. "Non sono gelosa del mio testo. È scontato che qualcosa perderà, qualcosa guadagnerà. Rileggo le sceneggiature, do consigli, ma non voglio proteggere il mio libro: i libri si proteggono da soli. Una volta pubblicati sono invulnerabili". Così Valentina Desalvo su "Repubblica".

Elena Ferrante: “La mia amica che va in tv”

Rassegna stampa: La Repubblica, di Valentina Desalvo.

Tutti hanno avuto un amico speciale, qualcuno ha saputo raccontarlo. Ma l’amica speciale – quella che ti fa uscire dalla vita piatta o selvaggia, accende le luci e ti mostra una strada – non aveva avuto una grande storia. Il successo di Elena Ferrante sta, banalmente, in questo: un lungo romanzo, diviso in quattro episodi, che racconta l’amicizia femminile. Due bambine (ragazze, donne), nate in un mondo brutale, la Napoli di un rione poverissimo in cui la vita è rapporto di forza o di potere, dove una, Lila, riscatta l’altra, Lenù. E viceversa. Due milioni di copie vendute negli Stati Uniti, un milione e mezzo in Italia, settecentomila in Gran Bretagna, ai primi posti delle classifiche in Germania, Brasile, Francia, traduzione in quaranta lingue.

Dal 2011 a oggi, la quadrilogia dell’Amica geniale ( pubblicata qui da e/ o e negli Usa e Gran Bretagna da Europa Editions, la sua gemella aperta a New York) è diventata “il romanzo globale italiano”. Ogni Paese sceglie un aspetto e se ne innamora (la rabbia, il talento e la riscossa sociale; il legame aggressivo, passionale e mai sentimentale tra le protagoniste; Napoli e il suo destino; una politica dell’intimità che non consola ma rassicura: c’è qualcuno che resta parte di noi; l’identità nascosta dell’autrice, Elena Ferrante), eppure ovunque critici e lettori confessano la stessa cosa senza vergogna: a un certo punto hanno cominciato a leggere il romanzo sempre più in fretta, senza poter smettere. Fino a ” inghiottirlo”, ha scritto qualcuno, pur di arrivare in fondo. Per tutti quelli che l’hanno inghiottito L’amica geniale diventa una serie tv. In onda nel 2018. Elena Ferrante ha risposto via mail alle domande su questo tema.

Qual è stato l’elemento determinante che l’ha convinta a far diventare la quadrilogia una serie tv?
«All’origine di tutto ciò che capita ai libri c’è, secondo me, sempre un’unica decisione: la decisione di pubblicarli. Da quel momento, almeno fino a quando anche una sola persona li leggerà, essi faranno tutto quello che fanno i libri, vale a dire causeranno effetti di vario genere in chi li legge. Teatro, cinema, televisione sono appunto questo: effetti della lettura, effetti non molto diversi dai sogni che a volte facciamo, suggestionati da eventi e personaggi di cui abbiamo letto prima di addormentarci».

Non ha provato una forma di “gelosia” rispetto al suo testo? In fondo una serie tv prevede dei dialoghi, una riscrittura complessiva. E lei, come autrice che ha scelto di essere solo autrice, sul testo fonda il suo rapporto con i lettori. Il lettore entra in un rapporto intimo con quello che lei scrive, perché Elena Ferrante è solo quello che scrive. Ora la fiction creerà un altro tipo di relazione. È curiosa di questo?

«Sì, molto. Mi incuriosisce tutto ciò che ha a che fare col nesso autore-libro-lettore. Sceneggiatori, registi sono lettori di un tipo particolare. Quando per il loro lavoro muovono da un libro, sono costretti a lasciare una traccia della loro lettura e, insieme, a dare testimonianza dei loro obiettivi di autore. Così, nelle varie fasi di scrittura, è possibile vedere come legge, come reinventa, chi ha il compito di mutare la scrittura letteraria in una scrittura funzionale a un prodotto d’altra natura: il racconto per immagini. Questo mi ha sempre molto interessata, fin dai tempi dell’Amore molesto. Quindi no, gelosia no. Attenzione piuttosto alle modalità secondo cui si verifica il salto dalla scrittura letteraria alla scrittura al servizio di un film o di una serie televisiva. Il processo mi pare particolarmente significativo perché, tra l’altro, rende palese ciò che accade a chiunque legga un libro. La lettura genera sempre adattamento a sé, reinvenzione secondo le proprie urgenze più segrete, fino a fare di chi legge l’autore di un suo libro personalissimo. Solo che qui ne abbiamo traccia, l’autorialità diventa evidente».

Che tipo di lavoro sta facendo rispetto alla sceneggiatura e ai testi?

«L’unico di cui sono capace: la lettrice. Leggo le sceneggiature e butto giù appunti cercando di collaborare al buon funzionamento del racconto cinematografico. Evito nei limiti del possibile di proteggere il libro. I libri si proteggono da soli, tanto più che per loro natura, una volta pubblicati, sono invulnerabili».

Quale differenza c’è – se c’è – tra il rapporto che lega un lettore a un libro e quello di uno spettatore con una fiction?

«Non c’è un’unica differenza, ce ne sono parecchie. Qui ne segnalo una abbastanza banale, ma importante. Ai lettori è richiesta una collaborazione molto più impegnativa di quella che è richiesta allo spettatore. Si tratta ovviamente in entrambi i casi di fruitori di finzioni. Ma ciò che noi “vediamo” e “sentiamo” e “tocchiamo” leggendo un libro è indotto da una potente stilizzazione del reale: i ventuno segni dell’alfabeto. Sono quelli che attivano i nostri sensi, evocano paesaggi, corpi, voci, emozioni, pensieri, etc. La maglia delle lettere, proprio perché è così finemente astratta, non è stretta come quella delle immagini. Per quanto la scrittura definisca con grande precisione ogni cosa, essa lascia per sua natura sempre dei vuoti che il lettore colma con la sua esperienza e la sua immaginazione. Anche lo spettatore, naturalmente, è costretto a uno sforzo di decifrazione e deve collaborare perché lo spettacolo funzioni. Ma il cinema, la televisione hanno dalla loro un’apparente immediatezza di consumo, una “facilità” che non appartiene all’alfabeto. Lo spettatore paga, d’altro canto, quella fruizione meno impegnativa con la partecipazione a un gioco più costrittivo. Se ogni lettore, mettiamo, ha alla fine la sua personalissima Bovary, anche a dispetto delle strategie compositive di Flaubert, uno spettatore non può che subire il corpo dell’attrice scelta per la parte, con la sua voce, la sua gestualità. Insomma, tornando all’Amica geniale, la pagina continuerà a offrire, finché sará letta, molti possibili corpi per Lila. Il racconto per immagini invece non può che ridurre Lila a un corpo determinato e mostrarlo dicendo: questa è Lila».

La lingua, l’emancipazione attraverso la lingua, è un tema centrale nel rapporto tra le due amiche. L’italiano prima, il latino e il greco poi, sono le lingue del riscatto dalle origini e il segreto della differenza per le due bambine- ragazze. Ma nella fiction, probabilmente, verrà usato il dialetto. Come immagina il rapporto tra le sue parole, quasi sempre in italiano a segnare la distanza e l’unicità di quel legame e di quel racconto, e quelle di una traduzione nei dialoghi?

«Questo è uno dei punti ineludibili, nel passaggio dall’Amica geniale alla serie. Nei miei libri ho scelto sempre di raccontare il ruolo del dialetto, non di mimarlo. L’ho fatto perché in genere ogni imitazione letteraria dell’oralità dialettale, persino quella che ha prodotto grande letteratura, mi ha sempre infastidita, specie quando neutralizzava con l’ironia, con il comico, con il patetico, una lingua che sentivo violenta e che mi metteva ansia. Ma l’ho fatto anche perché le mie narratrici usano un italiano conquistato a fatica, con sofferenza, e i loro racconti nascono ormai quando esse si sono definitivamente separate da Napoli e dal dialetto. Il racconto per immagini, però, deve per forza rompere con le scelte dei miei libri. Non è più questione di parole: sullo schermo la finzione del dialetto deve avere tutta la sua sonorità brutale, in coerenza con la messinscena realistica di spazi, di corpi. Tanto più che, come lei sottolineava, il dialetto, nell’Amica geniale, è il punto di partenza di un percorso culturale complesso».

Non c’è il rischio che nella traduzione sullo schermo ci si appiattisca troppo sulla cartolina napoletana tra neorealismo e sguardo un po’ “americano” sulla città?

«Sicuramente sì. La via più agevole per la rappresentazione è sempre lo stereotipo, e non è semplice sottrarsi. Si tratta di una battaglia e vincerla, ancor più che agli sceneggiatori, tocca al regista».

Il racconto della quadrilogia è anche il racconto di una Napoli delle donne. Di un punto di vista sul mondo e sulla storia completamente diverso. Ed è anche uno sguardo politico sulla città, sui rioni, sulla vita. La fiction tv quanto può diffondere questa specificità “geniale”, cioè l’idea che la libertà delle donne, la loro emancipazione, non sia affatto una questione ovvia?

«Un prodotto televisivo riuscito ha un potere di divulgazione di gran lunga superiore a quello del libro più fortunato, e perciò può dare un notevole contributo alla nostra battaglia. Ma “riuscito” per me significa, primo, che non sia una rappresentazione edificante, e secondo che ricordi a noi tutte, ma soprattutto alle nuove generazioni, che ciò che abbiamo ce lo siamo preso a forza e che, se tutte le conquiste di civiltà sono precarie, le nostre conquiste lo sono in modo particolare. Basta guardarsi intorno: tutto, proprio tutto, ci può essere strappato da un momento all’altro».

Che tipo di spettatrice televisiva è, se lo è? Cosa le piace vedere?

«Vedo poco la televisione, non per snobismo, ma perché ho da fare. Di solito seguo abbastanza stabilmente Otto e mezzo e amo i documentari».

Come spiega il successo delle serie tv degli ultimi anni? Le paragonerebbe ai feuilleton di una volta, come è stato fatto?

«Ne ho troppo poca competenza per risponderle articolatamente. Mi sembra che i prodotti televisivi migliori stiano portando alle estreme conseguenze la grande fascinazione del vecchio cinema delle sale. Ne hanno messo a nudo le insufficienze, ne hanno aggiornato le tecniche narrative, ne hanno incamerato, in certi casi, persino il versante sperimentale. Non so se sono un punto d’approdo del racconto per immagini, ne dubito. Ma sono una reazione di grande interesse, e a volte di alto profilo, alla crisi del grande schermo».

L’idea di serialità riguarda in qualche modo anche “L’amica geniale”. Pensa che parte del successo sia dovuto anche all’affezionarsi progressivo dei lettori ai personaggi? Allo stabilire un appuntamento con loro e un senso di attesa proprio come accade con le serie tv?

«Forse sì, almeno stando al modo secondo cui il libro è stato pubblicato. Ma, a dire la verità, la scansione in quattro volumi è stata solo un effetto della mole. Il progetto, all’origine, non teneva in nessun conto la serialità, L’amica geniale è nato come un flusso narrativo continuato. E mi auguro che compaia presto in un volume unico».

C’è un passaggio nell'”Amica geniale” di cui teme di più la traduzione televisiva? La sua aspettativa è diversa rispetto alle traduzioni cinematografiche dei suoi romanzi precedenti?

«No. Do per scontato che qualcosa si perderà, qualcosa risulterà stravolto, qualcosa ci guadagnerà. Ma questo accade anche con le traduzioni letterarie: è difficile dire cosa del testo originario finisce davvero nelle lingue più diverse, io per esempio temo sempre che si perda quella densità che mi pareva che i libri avessero mentre li scrivevo. In più non si può ignorare che l’industria dello spettacolo ha investimenti, esigenze e obiettivi non paragonabili con quelli dell’industria del libro. Sospetto quindi che, a lavoro finito, sia io che qualche lettore avremo l’impressione che il risultato ci sia almeno parzialmente estraneo. Ma è naturale che succeda così, è come quando si va per un po’ in una casa sconosciuta e persino la doccia sembra spruzzare un’acqua che ci dà disagio. Poi ci si abitua, e a volte la doccia nuova funziona meglio della nostra».

 

(Nella foto la copertina de L’amica geniale)