Pubblicato il 03/07/2017, 11:32 | Scritto da La Redazione
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Addio a Paolo Villaggio, per primo raccontò l’Italiano medio

Morto Paolo Villaggio, aveva 84 anni. Con Fantozzi e Fracchia raccontò “l’uomo medio” italiano

Rassegna stampa: Corriere della Sera, di Maurizio Porro.

E adesso chi ci dirà più che La Corazzata Potemkin è una boiata pazzesca? Era una falsità cinefila, ma una verità sociologica. Se ne è andato oggi — in una clinica privata di Roma, all’età di 84 anni, dopo giorni di ricovero a causa del suo diabete — Paolo Villaggio, col suo corredo di stramberie, la sua moda personale, e si è portato via la maschera di Fantozzi, il travet umiliato e offeso della piccolissima borghesia nato nel corso del tempo dalla precisa osservazione della middle class angariata dal Padrone e dal fatto che egli stesso era stato un impiegato d’azienda. Era un Paperino ad orario fisso, cartoon vivente — come Chaplin, Sellers — in cui tutti ci siamo identificati nel rituale quotidiano.

Le affinità elettive con De André

Villaggio è stato una macchina da guerra: libri, cabaret, teatro, cinema, radio e tv; e alla fine stanchezza e delusione. Nato l’ultimo giorno del 1932 a Genova, dove visse anni scapigliati coincidendo per affinità elettiva con Fabrizio de Andrè, con cui fece l’entertainer nelle navi di crociera, colleghi di Berlusconi. Villaggio è poi sceso dalla nave passando al cabaret, il solido gruppo goliardico Baistrocchi, fino all’avviso di chiamata dello Stabile di Genova di Chiesa e Squarzina che nel ’66 lo vollero in alcune produzioni. Figlio di ingegnere siciliano e madre veneziana insegnante di tedesco, fratello gemello di un medico, Villaggio è stato il «disonore» della famiglia, prima assunto all’Italsider ma poi vendicativo osservatore di tempi cinici e bari, partendo dai microfoni radio del «Sabato del villaggio» fino all’exploit nel ‘68 con «Quelli della domenica». Una trasmissione miniera di nuovi talenti: Cochi, Renato, Boldi, Iannacci e Villaggio che spopola e si sdoppia in Franz, mago tedesco sadico già presentato in piazza Marsala a Genova e ora negli studi tv se la prende col pubblico milanese; e Giandomenico Fracchia, vigliacco, untuoso, ipocrita impiegato che sembra uscito dai racconti di Gorkji, pronto a tutto per uno scatto di carriera, fino a diventare il popolare rag.

Fantozzi, disperato fumetto della società dei consumi

Ugo Fantozzi, disperato fumetto della società dei consumi che consuma. Totale rottura di forma e sostanza col varietà che entrò nello storico Derby a Milano e poi diritto nel salotto buono di Rai1, complice il ’68, portandovi il cinismo surreale e grottesco delle nevrosi collettive. Fantozzi è la commedia dell’arte impiegatizia con effetti comici fragorosi: i patetici cenoni l’ultimo dell’anno e le gite fuori porta con le nuvoletta sempre pronta, il pronti via per timbrare all’uscita e l’inchino al boss Agus sul divano di pelle umana. Con complici seriali: la paziente moglie Milena Vukotich, la scimmiesca figlia che era poi l’attore tunisino Plinio Fernando, il miope Filini-Gigi Reder collega d’ufficio, il vendicativo capo personale Umberto D’Orsi, Anna Mazzamauro, la signorina Silvani, modaiola collega trendy che gli si concede solo nell’ottavo episodio del serial che accumula guai e sintetizza immani disastri. Mentre iniziava col cinema (nel ’70 parte tedesco per la Crociate di Monicelli con Brancaleone) Villaggio frequenta la tv, fa il guastatore alla Sanremo di Bongiorno nel ‘72, prima di Chiambretti; condurrà con Boldi Striscia la notizia, nella fiction Angelo di seconda classe di Wertmuller e Carabinieri.

Una irresistibile crudeltà

Ma inutile negarlo: la fama rotonda di Villaggio, che nell’ultimo periodo amava anche le confessioni monologanti e autobiografiche del teatro, come l’amico Gassmann, sta nella cassetta di sicurezza dell’irresistibilmente crudele Fantozzi, sceneggiato con maestri come Benvenuti e De Bernardi. Fu record d’incassi lungo una saga, figlia di una commedia all’italiana deformata all’inizio dallo spiritoso Luciano Salce nel ’75, proseguita nel 76 con incassi da capogiro per la Cineriz, passata poi in eredità in una decina di episodi non tutti all’altezza e in decrescendo di box office. Gag ripetitive e non sempre clamorose con Fantozzi che resuscita, va in pensione, subisce, va alla riscossa, torna, vince la lotteria, viene congelato, clonato: è l’omino in controluce che si nasconde in ciascuno. Dopo i due di Salce, i film fantozziani furono tutti (meno l’ultimo) diretti da Neri Parenti, regista di fiducia di De Sica-Boldi. Era suo genero e l’aveva diretto in storie ispirate ai personaggi cult, tra campioni d’incassi serializzati: Le comiche e i Grandi magazzini, I pompieri, Scuola di ladri, sempre in cast grupparoli. Villaggio non rifiutava nulla, sapeva fare il mattatore ma anche dividere il successo, garanti molti episodi in titoli in subaffitto con beniamini amici come Tognazzi.

Il dono della goliardia

Possedeva innato il dono della goliardia che ogni tanto giocava contro, come quando fece con Dorelli una deludente versione teatrale del Vizietto, mentre il ritorno alle scene è siglato dal Piccolo di Milano nell’Avaro diretto da Puggelli ma partito con intuizione di Strehler, dove il ricco Arpagone è parente delle miserie umane dell’attore. I sogni mostruosamente proibiti e tragicomici di Villaggio, ormai indistinguibile nella memoria dall’alter ego diplomato in ragioneria, andarono oltre il cinema digestivo anni 70-80 di Salce, a tutti gli effetti il suo Pigmalione (vedere anche Il Bel Paese) e poi di Steno, Corbucci, Castellano e Pipolo, i Vanzina. Fu notato pure da Loy (Sistemo l’America e torno), Del Fra, Samperi, Cervi, Ponzi (elisabettiano Volpone), Pompucci (ottimo Camerieri), Oldoini (Bugiardo in Paradiso); ed ancora Monicelli (Cari fortuitissimi amici), Gassmann anche autore (Senza famiglia), Nichetti (Palla di neve) e Salvatores (il sadico odontotecnico di Denti). I suoi fiori all’occhiello, a parte il David condiviso con Volontè e il Leone alla carriera a Venezia nel 92, furono tre film tratti da libri: Io speriamo che me la cavo della Wertmuller dal libro di Marcello D’Orta, La leggenda del bosco vecchio di Olmi, dal racconto di Buzzati, La voce della Luna con Benigni, dal poema di Cavazzoni. Fellini (con cui girerà per una banca tre spot con incubi freudiani) gli affida nell’ultimo film, elogio della follia non solo visiva del grande regista, il ruolo del pazzo ex prefetto con l’ultima battuta profetica su “quel” bisogno di silenzio ancora inevaso. E mostra così l’animo nascosto, delicato, infelice, al di là dell’obbligo della risata e del suo buffo look no dieta mai. Villaggio aveva accumulato il suo talento e si era anche divertito a disperderlo in mille rivoli e occasioni, partendo come scrittore del suo eroe: vendutissimi i romanzi fantozziani, meno quelli biografici usciti dopo con titoli forse sciocchi e scioccanti, parte di una crisi, di un finale di partita che lo stesso Villaggio non sapeva bene come giocare e che indubbiamente gli ha riservato anni tristi.

(Nella foto Paolo Villaggio)