Pubblicato il 30/05/2017, 19:40 | Scritto da Gabriele Gambini

Massimo Righini: Un autore tv ricerca sempre l’autenticità

Massimo Righini, autore Magnolia, racconta le prerogative del suo mestiere e ripercorre la sua esperienza professionale dai tempi di Mediaset

Sviluppare empatia nei confronti del pubblico partendo da criteri di credibilità, caratteristica che, soprattutto quando si parla di osbervational documentary e reality show, non può prescindere dall’autenticità del narrato. Immergersi nelle basi costitutive che sottendono la creazione di un prodotto destinato alla fruizione televisiva tenendo ben presenti destinatario, sinergia tra casa di produzione e broadcaster, contesto di realizzazione.
Sono solo alcune delle prerogative del mestiere autorale e ne abbiamo parlato con Massimo Righini. Forte di una strutturata militanza creativa nel team di Magnolia e di un’esperienza professionale ventennale iniziata a Mediaset, Righini è oggi al lavoro sul set della nuova edizione di Bake Off. Ma ha curato anche la versione italiana de Il collegio, tra gli esperimenti televisivi più interessanti della stagione trascorsa. Prima di tutto, perché ha messo a confronto – prima volta nella tv italiana – la generazione millennials con un ambiente scolastico inedito sul piano del metodo e del contesto temporale. Poi, particolare non trascurabile, perché ha dato vita a dibattiti serrati sul web, oggi più che mai luogo di contaminazione argomentativa generatrice di critiche funzionali allo sviluppo di un pensiero, se liberata da haters e dalla tendenza all’ironia compulsiva.

Partiamo da una considerazione generale sulla tv italiana: il racconto del quotidiano ha oggi in appalto buona parte dei format televisivi di successo. Soprattutto se ci si riferisce ai dating show e ai talent gastronomici. Perché?

Il dating, perché molti italiani si sentono soli. Programmi come Undressed, dove non c’è un copione ma c’è un ambiente in cui far fluire azioni spontanee, incontrano i gusti dei partecipanti e del pubblico perché spingono a evadere dai contesti tecnologici e a parlarsi davvero. Quella è la molla che solletica chi ne è attratto. Il dating è un formato a respiro lungo, si presta a molte variazioni sul tema. L’Olanda, da questo punto di vista, è un laboratorio progettuale interessante, in virtù del suo background socio-culturale. Quanto al cibo, si tratta di una delle prerogative classiche dell’italianità. La risposta vien da sé.

Lei ha iniziato con Mediaset negli anni ’90. Ha vissuto l’evoluzione del mezzo tv e dei modi di rapportarsi professionalmente a esso.

Nel ’96 ero giornalista a Verissimo. Prima, in una tv locale della mia Toscana, mi era stata data la possibilità di creare un magazine televisivo da zero e ho iniziato così il mio percorso. Il mio scopo era comunicare attraverso scrittura e immagini, ho fatto anche l’inviato, ma ho capito davvero che volevo diventare un autore dopo averne conosciusto alcuni aspetti di base: la creazione di una scaletta, la stesura di un copione, il racconto del quotidiano all’interno di un format prestabilito. Ricordo quando lavorai a MelaVerde. Un autore anziano mi disse: “Fai un esercizio di stile, parla di una carota per 48 minuti”. Fu una palestra incredibile. Tutta gavetta.

Che azienda era, al tempo, Mediaset?

Produceva moltissimo internamente. Vagliava un sacco di curricula. Non era ancora l’epoca degli appalti esterni. I broadcaster erano gli unici referenti per un giovane con velleità creative.

Oggi si lavora molto con società esterne. Come Magnolia, appunto.

Oggi si lavora su appalti, si rielaborano tanti formati internazionali acquisiti. Si pensa locale in uno scenario globale, in cui i canali e le committenze sono ampie e diverse. Un cambiamento che non abbraccia solo la tv. La stessa cosa è avvenuta per le etichette discografiche, ma avviene anche per i produttori di lavastoviglie. Il paradigma industriale del capitalismo occidentale è cambiato, c’è una maggior esternalizzazione ed efficientizzazione, come si dice. Questo perché si è compreso che far crescere a oltranza le strutture ne penalizza l’agilità produttiva. Per questo si preferisce ottimizzare costi e progetti puntando su un dialogo tra grandi strutture che rendono efficiente la propria dimensione e strutture creative in cui la propulsione allo sviluppo delle idee è il focus principale.

In questo contesto, che cosa fa un bravo autore?

Innanzitutto, sceglie di fare l’autore non per diventare un personaggio televisivo. Non funziona così. Un bravo autore privilegia lo sviluppo creativo delle sue idee a prescindere dal mezzo in cui si trova a svilupparle. Se ama la tv, significa che la sua dimensione ideale è creare idee per tradurle in un racconto di immagini. Occorrono, per farlo, fantasia, capacità di rielaborare informazioni diverse leggendo costantemente e vivendo l’attualità, saper trasformare una sensazione in un progetto. In più, un autore capace cerca di non sedersi. Diversifica i suoi stimoli e gli argomenti dei programmi che vuole trattare. Se poi diventa anche producer, impara nel tempo a far interagire la parte editoriale di un progetto con quella produttiva: è essenziale per capire davvero ciò che si può fare o no, anche in termini di budget a disposizione.

Quanto conta avere un buon mentore, per chi inizia?

È essenziale. Io stesso, coi miei redattori o durante le lezioni che tengo in università, spiego l’importanza dell’esperienza sul campo con chi già conosce il mestiere. Vivere di sola teoria è controproducente.

Quando pensa a un programma, valuta prima di tutto la committenza?

Parto sempre da due aspetti. Il conduttore e il canale in cui il programma va in onda. Sono elementi imprescinbili, tutto il resto viene dopo.

Esiste ancora la tv con un valore pedagogico?

Un autore tv non salva vite umane, fa entertainment. Bisogna sempre tenerlo presente. Dopodiché, è importante raccontare ciò che si ha da dire nel modo migliore possibile, allestendo un progetto che non abbia la pretesa di insegnare qualcosa, ma che sappia intercettare lo spirito dei tempi. Se ci riesce, significa che ha saputo trasmettere anche qualcosa di formativo.

Ha lavorato alla Fascino di Maria De Filippi.

Breve aneddoto. Durante una puntata di Amici, avevo preparato una scaletta. Maria decise di cambiarla, riscrivendola da zero, perché aveva intercettato un cambio d’umore in uno dei concorrenti nella prima fila e voleva esternare la cosa. Ha un’incredibile capacità di ascolto delle storie e di improvvisazione, è l’anima di ogni programma che fa.

Ed è stato a Domenica Live per sei anni da Barbara D’Urso.

Vale la stessa cosa. Se l’è cucito addosso su misura e sa benissimo come renderlo ciò che vuole che sia: un magazine da sfogliare dal parrucchiere o mentre si stira alla domenica davanti alla tv. Quando si accende la luce della telecamera, è padrona della situazione e gli autori lavorano di conseguenza. Del resto, come detto, non puoi dare in mano a un conduttore qualcosa di diverso da ciò che lui è.

Sfogliando il suo, di curriculum, si constata invece che non le manca quasi nulla.

Mi manca il Festival di Sanremo. Un giorno mi piacerebbe farlo. Poi, per questioni anagrafiche, mi sono perso la grande stagione dei varietà e degli show del sabato sera di una volta. Quel tipo di tv non tornerà ma ho ben presente quando, da piccolo, guardavo con mia mamma Fantastico ’86. Se sono qui oggi, è perché sognavo di poter lavorare, un giorno, dietro alle telecamere di programmi del genere.

Un aspetto interessante del lavoro autorale è quando ci si confronta con un format con protagonisti gli under 18. Il Collegio ne è un esempio. Con quali criteri sono stati effettuati i casting?

Quando Magnolia ha vinto l’appalto, grazie al lavoro di Roberta Briguglia, direttore dei contenuti, abbiamo iniziato a pensare a una nostra visione del programma. Da lì sono cominciati i casting, con contatti frequenti con associazioni, gruppi sportivi, anche, perché no, agenzie che rappresentano ragazzi con velleità televisive. Il nostro sito casting è frequentato da interlocutori che si occupano del mondo dello spettacolo ma non ci importava quale fosse lo slancio motivazionale che spingesse un ragazzo a partecipare. L’essenziale era la volontà a mettersi in gioco in un’esperienza scolastica legata al passato. I format con cambio del contesto temporale sono un trend diffuso all’estero, noi siamo stati i primi a realizzarlo in Italia sotto questa forma.

Uno dei dubbi più frequenti riguardava l’autenticità del narrato.

Premessa: tra i protagonisti c’era qualcuno che aveva già all’attivo piccole esperienze davanti alla telecamera, ma non è stato questo il criterio con cui sono state fatte le selezioni. Per quanto riguarda l’autenticità del narrato, gli adolescenti, più di qualunque altro individuo, portano in dote l’imprevedibilità. Risulta praticamente impossibile imbrigliarli dentro un copione prestabilito. E comunque non era questo lo scopo del format. Il lavoro autorale si è limitato a ricreare un recinto temporale ben definito in cui loro potessero svolgere l’attività scolastica secondo i criteri in voga in Italia negli anni ’60. Gli operatori, in modo del tutto asettico, riprendevano la loro quotidianità, le lezioni duravano davvero cinque ore al giorno. Il resto lo faceva il montaggio, con cui ci si preoccupava di dare spazio a una concatenazione narrativa coerente ma mai forzata.

Lo scopo era allestire una classe il più possibile eterogenea?

Un ambiente eterogeneo, non necessariamente formato da ragazzi, per così dire, scolasticamente problematici. Il pungolo narrativo del programma è basato sulla discrepanza temporale e i problemi di adattamento dei singoli protagonisti sono nati tutti da lì, fornendo gli spunti che ci interessava evidenziare. La scuola di oggi spesso si concentra su prove in classe a risposta multipla e sull’uso complementare della tecnologia. Noi abbiamo sfruttato la componente dell’inaspettato, per un millennial: negli anni ’60 non esistevano smartphone, le sollecitazioni didattiche spesso erano a componente mnemonica, le stesse figure dei professori non erano quelle consuete. Il preside è stato scelto in virtù di un suo rigore colloquiale molto caratterizzato. Luca Busso e io abbiamo adattato il format originale senza subire particolari pressioni da Rai2.

Qual è stato il tratto distintivo dell’adattamento italiano di un format inglese?

Il programma era già molto forte nella sua idea di base. Abbiamo riadattato l’originale inserendo spunti di italianità riconoscibili per gli spettatori. Le teche Rai ci hanno fornito un immenso patrimonio da cui attingere per risultare il più possibile credibili. Abbiamo drenato tutti i rimandi alla cultura anglosassone, che nobilita il ruolo del collegio anche grazie all’immaginario cinematografico, e abbiamo pensato a come fossero i collegi in Italia cinquant’anni fa. Un luogo non certo nobilitante, formativo ma con aspetti coercitivi, cucendo addosso al racconto chicche nostrane, senza inventarci nulla. A partire dalle scenografie, curate maniacalmente, fino a qualche dettaglio. Per esempio, ci siamo accorti che qualche ragazzo aveva difficoltà a scrivere con penna e calamaio. Poi però abbiamo scoperto che negli anni ’60 le Bic esistevano già e le abbiamo inserite successivamente. Allestendo un contesto molto riconoscibile anche per chi, a quell’epoca, era già nato. Da lì la scelta del voice over di Giancarlo Magalli, che ha vissuto quei tempi in modo diretto.

L’attenzione per il dettaglio, nel cambio di contesto temporale, diventa decisiva.

Magnolia a lungo è stata una società indipendente che ha licenziato molti formati, nel tempo abbiamo sviluppato una capacità di adattare localmente programmi all’apparenza non facili. Pensate, per esempio all’Isola dei Famosi italiana: presenta delle peculiarità ben smarcate rispetto all’edizione originale. La cura ossessiva del particolare fa la differenza tra credibilità e smaccata finzione ed è un nostro tratto distintivo.

Vi è capitato di pungolare l’azione dei protagonisti indirizzandola in qualche modo?

Il solo pungolo da noi fornito è stato l’allestimento del contesto. Per esempio, quando i ragazzi assumevano l’olio di fegato di merluzzo, integratore molto in voga negli anni ’60, e facevano la faccia disgustata, non eravamo noi a suggerire loro un comportamento. Si trattava della loro reazione spontanea, la scommessa è stata proprio quella.

Lavorare con materiale umano fatto di adolescenti e ragazzini comporta delle differenze di approccio?

I ragazzi sono imprevedibili ma se hanno fiducia nella persona che hanno di fronte, danno tantissimo. ll segreto sta nell’ascoltarli. Un ragazzo, soprattutto oggi, ha bisogno di essere ascoltato. In questo senso, poi, Il collegio ha fornito loro un punto di vista inedito sull’approccio alla vita scolastica, facendo comprendere il valore dell’impegno senza retoriche stantìe.

Qualcosa di simile può essere detto anche per Junior Bake Off, sul quale ha lavorato. Ma come si tutela un ragazzo dall’esposizione a un formato televisivo?

Facendolo partecipare in modo giocoso. La gara, specie in Bake Off, è un espediente non competitivo. Non c’è approccio punitivo o di esclusione verso chi rimane indietro. Si affronta lo sviluppo delle puntate come se si stesse giocando in un parco. Valorizzando ciò che i ragazzi sanno fare senza penalizzarli per delle lacune. Scoprendo, strada facendo, un particolare non da poco.

Quale?

Per istinto, i ragazzi sono portati alla coesione, molto più degli adulti. Tra loro c’è una marcata solidarietà, se li osservi in azione non noti la tendenza darwiniana all’esclusione di chi rimane indietro. Uno spirito solidale che ho notato anche dopo aver girato Il collegio.

Le ingerenze parentali possono essere un rischio?

Non in questi casi. Non si tratta di programmi in cui ci si confronta su talenti subito monetizzabili come il canto o il ballo. Soprattutto Bake Off, anche nella sua versione per adulti, ha come prerogativa la rilassatezza e la distensione degli animi. Non a caso, è l’unico programma pensato per un prime time che va in onda con immagini diurne, con il sole in bella mostra. La luce, già di per sé, allontana le forme di cupezza è dà una connotazione precisa allo sviluppo del racconto. Masterchef presenta invece delle componenti adrenaliniche volutamente più marcate, perché punta a una narrazione differente.

Ripensando a format in cui il cambiamento di epoca è alla base del suo sviluppo, è ipotizzabile prevedere altri esperimenti in questo senso per il futuro?

Il contesto è alla base dello sviluppo di un programma convincente. Sempre. Si parte dal contesto e si pensa a tutto il resto, perché da lì nascono i condizionamenti, anche inconsci, delle azioni dei protagonisti. Soprattutto se si parla di reality show. Da questo punto di vista, il cambio d’epoca rappresenta uno stimolo interessante, a patto che sia sempre possibile lavorare con criteri di credibilità. Se qualcosa suonasse come troppo forzato o finto, il risultato finale risulterebbe depotenziato.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Massimo Righini e il team Magnolia de Il Collegio)