Pubblicato il 10/05/2017, 19:35 | Scritto da Gabriele Gambini

Camilla Filippi: Oltre a recitare faccio progetti fotografici psichedelici

Camilla Filippi: “Come attrice, mi piacerebbe mettermi alla prova in un film d’azione”

Vivere molte vite, esplorare le proprie corde emotive con intenti progettuali, trasformare in immagine una parola scritta su un copione. Si dice siano alcuni dei privilegi del mestiere di attore e, nel caso di Camilla Filippi, sono diventati tratti distintivi di una contaminazione di generi che ha abbracciato anche Instagram. Trasformando il social più in voga oggi in qualcosa di più di un semplice resoconto narcisista del quotidiano. Ma procediamo con ordine. Sul fronte televisivo, l’attrice (ha all’attivo ruoli in Tutti pazzi per amore, Ragion di Stato, Figli delle stelle, Il mondo fino in fondo) è impegnata ogni giovedì in prima serata su Rai 1 con la seconda stagione di Tutto può succedere, adattamento italiano di Cattleya dell’americano Parenthood. «Ritrovo Cristina, il mio personaggio, alle prese con un’evoluzione che riguarda tutti i membri della famiglia Ferraro».

Fino al 4 giugno, invece, sarà possibile osservarla negli autoscatti che compongono la mostra Psychedelic Breakfast (a cura di Renato Corsini, all’interno del Brescia Photo Film Festival), estensione di un’idea nata sui social e premiata con la partecipazione al progetto fotografico #guccigram. 200 autoscatti, postati ogni mattina sulla sua pagina Instagram, che la ritraggono, di volta in volta, nei panni di un personaggio ispirato all’immaginario pop di ogni tempo. David Bowie e Charlot, ma anche Steve Jobs e Vincent Van Gogh, Mia Wallace di Pulp Fiction, La Sirenetta. Ciascuno arricchito da una citazione che esprime uno stato d’animo, si prende gioco delle identità, a corredo di un diario emotivo che ridefinisce il concetto di selfie, abbinandolo a un pensiero solido.

Partiamo da Tutto può succedere 2. Il suo personaggio, Cristina, è alle prese con diverse evoluzioni.

Cristina sembra in tutto e per tutto un personaggio alato, distaccato rispetto agli eventi che le ruotano attorno. In realtà è il motore della famiglia, ne tiene insieme i pezzi. La nuova gravidanza spariglia le carte, la mette alla prova con un’evoluzione inevitabile.

Il fatto di essere madre di due figli nella vita reale l’ha aiutata a rendere credibile il percorso raccontato?

Essere madre nella vita reale ti consente di padroneggiare certi automatismi che, senza figli, non si potrebbero conoscere appieno. Penso alle piccole cose, come il semplice gesto di pulire la bocca a tuo figlio mentre sta mangiando. Ma io sono una mamma meno ansiosa rispetto a Cristina.

Tutto può succedere racconta il luogo più rappresentativo della vita italiana, la famiglia. Forse per questo incontra il gusto del pubblico.

Nel raccontare il quotidiano, la fiction cerca una verità estrema che il pubblico intercetta e premia. Soprattutto perché sa essere sfumata nei contorni, evitando prese di posizione manichee, raccontando l’umanità per ciò che è davvero. Ecco allora che un personaggio può essere forte in certi frangenti, debole in altri. Buono di indole, ma talvolta pervaso da punte di perfidia inattese. Non ci sono i buoni e i cattivi tout court, c’è un’aderenza col vissuto.

La fiction è l’adattamento dell’americana Parenthood. Quanto è stata influenzata dalla visione della versione originale?

Gli sceneggiatori lo sono stati obbligatoriamente, avendone curato la rielaborazione per il pubblico italiano. Per quanto mi riguarda, ho visto solo due puntate della versione americana, poi mi sono fermata. Non ne volevo essere condizionata, soprattutto perché penso che la cultura americana sia differente rispetto a quella italiana, e io cercavo una credibilità che non fosse mutuata dall’esterno.

Tuttavia la cultura americana influenza notevolmente le produzioni seriali, anche sul piano delle idee.

Quello è senz’altro uno stimolo positivo, concorre a migliorare la qualità delle nostre produzioni, a svecchiarne il contenuto, a favorire il confronto con nuovi tipi di scrittura. Un risultato lusinghiero su questo fronte, penso sia rintracciabile in una fiction come Non uccidere, che apprezzo anche per la ricerca estetica.

Un attore, quando parla di estetica, cerca la bellezza in ogni sua rappresentazione?

Cerca di calarsi al meglio nel ruolo che gli spetta e, se per bellezza si intende una resa estetica efficace, sì, la cerca e la ritrova anche nel raccontare il brutto.

Quando ha deciso di diventare attrice, aveva modelli di riferimento?

Monica Vitti. Una donna capace di reinventarsi, che ha provato a mettersi in gioco con accenti diversi in un’epoca in cui i ruoli al femminile erano decisamente in secondo piano rispetto a quelli maschili. Il gap esiste ancora oggi, benché ci siano più registi e attori che provano a raccontare il mondo delle donne con una buona dose di autenticità.

E, arrivata fino a oggi, la sua carriera collima coi suoi desideri iniziali?

Nella mia carriera ho fatto anche delle cazzate, come spesso capita. Non ho rimpianti, anche se a volte ho preso parte a progetti che, da spettatrice, non avrei mai guardato. Ma il mestiere di attore non sempre ti permette di scegliere in totale libertà. Non a tutti gli attori è concesso, per lo meno. A volte subentra l’esigenza di dover lavorare.

Fa parte del gioco.

Forse, se ci fosse una maggior rotazione di protagonisti nel cinema italiano, la possibilità di scegliere le parti sarebbe più ampia. Ma la mia non è una critica: ci sono grandi attori che meritano di fare anche cinque o sei film all’anno, tuttavia un po’ di alternanza in più garantirebbe al pubblico maggior originalità.

Suo marito è un regista (Lucio Pellegrini, ndr). Portarsi il lavoro a casa appesantisce la vita di coppia?

Parlare di lavoro come se fosse una routine stancante quando si ha la fortuna di svolgere una professione creativa sarebbe fuorviante. Tra me e Lucio c’è amore e stima, condividere le cose quando ci sono questi due presupposti è solo un privilegio. E poi, quando si hanno dei figli, a casa si parla solo di loro (ride, ndr).

A proposito di professione e creatività. Col suo progetto, Psychedelic Breakfast, ha cambiato la consuetudine dell’uso di instagram.

Tutto è nato quando mi hanno detto che avrei dovuto crearmi un profilo social. Ho notato che Instagram è un luogo finto, nessuno potrebbe stare davanti a un obiettivo, financo amatoriale, senza preoccuparsi dell’immagine che dà a chi guarda. Io cercavo un modo di rappresentare onestamente i miei sentimenti quotidiani, abbinandoli a un pensiero, a un progetto che uscisse dalla banale idea di selfie. Così ho deciso di creare un diario emotivo. Abbinando una foto a delle parole, attingendo all’immaginario pop che mi colpiva. Di giorno in giorno, ho realizzato autoscatti immaginando di essere qualcuno che, in quel preciso momento, rappresentasse il mio stato d’animo.

Bowie. Ma anche Steve Jobs. In una foto, è stata anche la parodia di Hitler.

Nella foto in cui ero Hitler, in primo piano c’era una tazzina con la scritta: “Merde”. Questo perché qualche giorno prima avevo avuto a che fare con una persona dalle chiare idee fasciste e il mio scopo, in quel caso, era rappresentare tutto il mio disprezzo per quell’incontro.

Quanto tempo impiega a calarsi in un personaggio per una foto?

Dai quaranta minuti all’ora e mezza, scatto compreso. Per fare Jimi Hendrix ci ho impiegato pochissimo. Utilizzo parrucche rimediate qua e là a basso costo, un po’ di trucco, pochi orpelli, come una tazzina o uno sfondo domestico che renda l’idea. L’essenziale è che, nel preciso momento in cui faccio la foto, il mio stato d’animo corrisponda al desiderio di rappresentare quel personaggio con quella precisa citazione. L’ho fatto per 200 giorni consecutivi, ciascuno con un umore diverso. Ora mi sono fermata, stava diventando alienante, lo faccio solo quando sento di aver qualcosa da esprimere.

Attinge da libri, musica, cultura pop.

Diceva Italo Calvino: “La fantasia è un luogo in cui piove dentro”. Per questo ho realizzato uno scatto con una bottiglia allagata d’acqua. Credo che rappresenti al meglio il senso del progetto.

Come è nata l’idea della mostra itinerante?

Due anni fa sono stata contattata da Gucci per la campagna mondiale #guccigram e, da lì, sono poi nate le altre iniziative.

Che cosa le manca, nella sua carriera di attrice?

Un bel ruolo in un film o in una serie action. Con spari, effetti visual potenti e tutti gli ingredienti del caso. Mi piacerebbe molto.

E se non fosse diventata attrice…?

Avrei fatto l’architetto. Pensandoci bene, è qualcosa di simile al ruolo di regista. Realizzi progetti, plasmi, in un certo qual modo, dei sogni. Una continuità col mestiere artistico, c’è.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto un autoscatto di Camilla Filippi, nei panni di David Bowie)