Pubblicato il 18/04/2017, 19:31 | Scritto da Gabriele Gambini

Francesca Cavallin: Spero che Di padre in figlia sia guardata dalle ventenni

Francesca Cavallin: “Sono nata a Bassano del Grappa, dove è ambientata la fiction, desideravo avere un ruolo”

Corsi e ricorsi della Storia con un vago sapore di sincronicità. Francesca Cavallin è nata a Bassano del Grappa, profonda provincia veneta, dove ha mosso i primi passi prima di laurearsi in Lettere Moderne all’Università di Padova, e iniziare il percorso di modella e di attrice. Oggi a Bassano torna, in una sfida professionale che chiude un cerchio: è nel cast di Di padre in figlia (da martedì 18 aprile in prima serata su Rai1), serie che in quattro puntate abbraccia un arco di temporale cruciale per l’Italia tutta. Dal 1958 ai primi anni ’80. Quasi delle ere geologiche, dei percorsi di affermazione sociale progressiva. Soprattutto per l’universo femminile. Raccontate attraverso la vita dei Franza, una famiglia patriarcale impegnata nella lavorazione della grappa, governata da un padre padrone (Alessio Boni) da cui le figlie, con l’aiuto della madre, cercheranno di affrancarsi per guadagnare parità di diritti.

«Nella fiction sono Pina», dice Francesca Cavallin a TvZoom, «una prostituta che realizza un percorso di autodeterminazione, diventando sarta. Gioca un ruolo cruciale nell’aiutare Franca (Stefania Rocca), moglie del pater familias». Per lei, un’occasione doppia: «Ho vissuto il ruolo con l’occhio della memoria sui racconti di mia madre e di mia nonna: conoscevano bene la realtà veneta degli anni ’50, ’60 e ’70».

Raccontare il percorso di affermazione progressiva dei diritti delle donne in Italia è servizio pubblico?

Lo è, senza alcun dubbio. Questa fiction procede in modo molto forte in questa direzione, grazie all’idea di Cristina Comencini e alla direttrice di Rai Fiction Tinny Andreatta. Il progetto è importante perché rilancia alcune istanze sulla parità di genere, ma è anche ambizioso nel suo racconto: abbraccia un arco temporale vastissimo ed è ambientato in Veneto, regione che, da rurale e contadina, si è ritrovata a essere locomotiva economica d’Italia. Con tutti i riferimenti sociali del caso.

Lei è di Bassano. Che effetto le ha fatto recitare nel suo luogo di nascita?

Ho voluto fortemente questa parte. Quando ho saputo del casting, ho fatto di tutto per partecipare ed essere selezionata. Cristina Comencini ha colto l’essenza del luogo in ogni sua sfumatura. Partendo dal particolare, una piccola realtà di provincia, ha raccontato l’universale, cioè una storia in cui chiunque potrebbe riconoscersi, a qualsiasi latitudine. Inserendo nel racconto alcuni aspetti che ho visto con i miei occhi: il personaggio di Cristiana Capotondi, per esempio, quando vuole a tutti i costi studiare all’Università di Padova. O il miraggio rappresentato da Milano, città idealizzata per davvero da molti bassanesi.

Non c’è il rischio di cadere nella trappola della retorica o di qualche luogo comune?

La scelta di Bassano del Grappa è nata quando Comencini ha promosso il suo libro alla libreria Roberti, nel centro del paese. Molte donne del posto le hanno raccontato il loro percorso e la ricostruzione storica è stata perfetta. Tutto ciò che viene raccontato è plausibile e non è retorico, molte cose le ho viste io stessa, o quando ero piccola, o con la voce e gli occhi di mia nonna e di mia mamma. Merito anche della sensibilità di Riccardo Milani alla regia.

Il suo ruolo è quello di Pina, prostituta che cerca di affrancarsi dalla sua condizione.

Una donna che parte dal livello sociale più basso di tutti. La mia Pina, alla fine degli anni ’50, non possiede niente, nemmeno se stessa. Però è appassionata di mitologia greca, sa leggere e scrivere. Vuole diventare sarta e realizza il suo percorso di autodeterminazione combattendo i pregiudizi del mondo borghese della provincia italiana.

Aiuterà anche Franca (Stefania Rocca), moglie del padre padrone della distilleria, ad acquisire indipendenza.

Verso Franca avrà un ruolo quasi maieutico. Le insegnerà a leggere, esprimerà una solidarietà al femminile di cui Pina è portatrice sana, dando un messaggio forte: la libertà non passa necessariamente da un ceto sociale o da un gruppo d’appartenenza.

Qual è stata la sfida attoriale più interessante durante la realizzazione della serie?

Sul piano produttivo, lo sforzo elevato per coprire un arco temporale molto ampio. La ricostruzione di decenni molto diversi tra loro. Sul piano mio personale, ho abbracciato i miei ricordi, sia nelle piccole cose, sia nei grandi temi.

Per esempio, nelle piccole cose?

C’è una coincidenza paradossale. Pina vuole diventare sarta. Mia nonna era una sarta. Mia zia, sua figlia, mi ha lasciato i suoi ditali e io, in alcune movenze ed espressioni, mi sono ispirata ai suoi racconti. Mi piace pensare di aver reso omaggio alle donne bassanesi, almeno un poco.

E nei grandi temi?

Pernso a quando passò il referendum a favore del divorzio. Mia mamma mi disse di aver votato a favore. Nonostante fosse sposata fin da giovanissima e nata in una famiglia cattolica. Questo fa comprendere quale scatto mentale ci deve essere stato nelle donne dell’epoca, immagino il suo dilemma interiore, lo sforzo per affermare un principio in un contesto culturale preciso.

Chi è lo spettatore ideale della serie, secondo lei?

Spero che sia vista da molte ventenni di oggi. Quelle che danno per scontate alcune libertà di cui godono, ma che forse non hanno ben presente quanto esse siano state frutto di conquiste sudate.

Si tratta di un auspicio surrettizio al ritorno del femminismo barricadero del passato?

A ogni periodo storico, le sue scelte. Oggi non è più necessario scendere in piazza con la veemenza degli anni ’60. Benché la bontà del movimento femminista di quel periodo resti intoccabile. Ma un tempo era necessario effettuare delle rivendicazioni attraverso strappi forti, mutuando atteggiamenti maschili in maniera dirompente. Ora viviamo in una fase diversa. I nuclei familiari sono pervasi di fluidità, la società stessa prevede ruoli interscambiabili tra uomo e donna. Per retaggio del passato, inevitabilmente, l’uomo fa più fatica ad adattarsi ai cambiamenti. Il segreto di una complementarietà proficua è la partecipazione e la comprensione reciproca delle legittime differenze, in un equilibrio di diritti liberato dagli approcci competitivi e dai luoghi comuni. Anche linguistici.

Il terreno semantico e linguistico è fondamentale.

La lingua dice molto di una cultura. Per esempio, quando una donna ha molti uomini, è considerata una “puttana”, quando un uomo ha molte donne, un “puttaniere”, perché la radice linguistica, in questo caso, viene da un punto di vista esclusivamente maschile.

La parità di genere è stata raggiunta nel suo mestiere?

Storicamente, i ruoli maschili a disposizione sono sempre stati in maggioranza. Oggi c’è un progressivo allargamento di opportunità anche per le attrici, la fiction italiana sta facendo passi in avanti. Negli USA c’è grande fermento intorno alla questione della parità dei cachet e penso sia una rivendicazione determinante.

A proposito di fiction italiana. Di recente ha fatto parte anche del cast di Rocco Schiavone.

Schiavone è un ottimo esempio del rinnovamento contenutistico e formale delle fiction Rai. Ci si sta avvicinando alla grande serialità statunitense, con Rai2 a far da terreno di sperimentazione. Rai1 conserva un target di pubblico più classico, ma si sta percorrendo una strada nuova, per certi versi impervia, con creatività lodevole.

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Francesca Cavallin)