Pubblicato il 30/03/2017, 19:35 | Scritto da Gabriele Gambini

Domenico Diele: sacerdote in In Treatment, la sfida più avvincente

Domenico Diele: “Sia Padre Riccardo di In Treatment, sia Luca Pastore in 1992 sono personaggi non lineari, portatori di messaggi ambivalenti e complessi”

Ha debuttato in tv nel 2009 con una piccolissima parte in una puntata di Don Matteo. Orgoglio nazionalpopolare Rai. Oggi è su Sky Atlantic ogni sabato con la terza stagione di In Treatment. Orgoglio pay un po’ radical, direbbero alcuni. «Di sicuro un prodotto articolato, alto, In Treatment è destinato a un pubblico che richiede un preciso standard qualitativo. Grazie a serie come questa, e in generale a tutta l’influenza seriale d’oltreoceano, le produzioni italiane hanno alzato il livello. Anche sulla generalista». Parola di Domenico Diele, 31 anni. Attore. Prima di interpretare il sacerdote in crisi di vocazione nella serie con Sergio Castellitto, è stato Luca Pastore, il poliziotto sieropositivo di 1992. Ma è stato anche tra i protagonisti di ACAB All cops are bastards di Sergio Sollima al cinema. Ha portato a Venezia L’attesa, di Piero Messina, a fianco di Juliette Binoche.

Domenico Diele, dunque ha ragione chi dice che recitare sia una forma di autoanalisi psicanalitica.

La rappresentazione di un personaggio sullo schermo ti mette davanti a due obblighi: da un lato, dare al tuo ruolo caratteristiche formali, come un’inflessione vocale, un tic fisico. O semplicemente il costume. Dall’altro, dovrai rappresentare le emozioni del personaggio, intercettando stati d’animo che non ti appartengono. Allora dovrai ricorrere al tuo vissuto, ai tuoi ricordi. Lì scatta l’autoanalisi.

Il suo ruolo in In Treatment è particolare. Come in 1992, indossa una divisa, ma stavolta è da prete,
Padre Riccardo.

Sulle prime, il ruolo mi ha spaventato. Non interpreto un sacerdote qualunque, ma un rappresentate dell’ala più conservatrice del clero. Contrario, per capirsi, all’aborto e al trattamento fine vita, senza nessuna deroga. Estremo nei toni e nei contenuti. La sua crisi interiore lo porta a un duello dialettico col dottor Mari (Sergio Castellitto, ndr), in un clima quasi da confessione. Solo che è il religioso, in questo caso, a confessarsi col laico.

In quel caso, che forma di analisi ha esercitato su di sé per risultare credibile?

Guardarmi allo specchio con l’abito talare è stato suggestivo. Uno strano effetto. Ma è come se avesse azionato un meccanismo. Ho cercato di prendere le parti del mio personaggio, anche se le mie posizioni nella vita reale sono distanti dalle sue. Lì c’è il senso vero della messinscena: intercettare le ragioni di un personaggio e sostenerle. Vale anche per ruoli negativi, per esempio se interpretassi sullo schermo un razzista.

Ci sono punti in comune tra Padre Riccardo e Luca Pastore, il poliziotto sieropositivo di 1992?

Entrambi sono personaggi non lineari. Luca vive la sua condizione di vittima comportandosi in modo non cristallino. Aggira le regole. Ma ciò che gli è accaduto, la sua malattia, mi ha portato a parteggiare per lui con maggior facilità.

Un ribaltamento dei punti di vista e un’intensa ambivalenza, si era respirata anche in ACAB di Sollima.

ACAB racchiude in pieno il senso di ciò che volevo intendere quando parlavo di “intercettare le ragioni di un personaggio”. Quel film ha avuto il merito di togliere ogni filtro retorico al racconto dei poliziotti che fanno servizio d’ordine, la “Celere”. Li ha analizzati, mostrandoli da un punto di vista inedito, il loro. Questa scelta, attenta a rappresentarli senza commentarli, quasi fosse un documentario, è stata uno dei punti di forza del film.

Che cosa significa, recitare in In Treatment?

Spesso mi viene in mente l’immagine di un ciclista che scala una montagna. La densità letta nel copione rappresenta la salita. Non è affatto facile. Lo fai di ora in ora, di battuta in battuta, durante ciak lunghissimi in cui l’importanza della memoria è cruciale. Provi a salire senza pensare alla cima, che è troppo lontana.

Serie come questa riescono davvero a influenzare le produzioni italiane, anche generaliste, al netto dei discorsi di budget?

In generale, da qualche anno, tutte le produzioni italiane sono state influenzate da quest’epoca televisiva. La scrittura ne risente in positivo. Rai e Mediaset, al di là dei totem intoccabili acchiappapubblico, stanno osando di più. E propongono prodotti più qualitativi rispetto al passato.

Una sfida interessante per un attore. Sempre che in Italia ci siano spazi sufficienti per esercitare il mestiere con profitto.

Questo è un aspetto sconfortante del lavoro. Ogni anno si diplomano in qualche scuola di recitazione sparsa per l’Italia, come è stato per me, migliaia di ragazzi. Ma il mercato non garantisce spazio a tutti. Fa parte del gioco. Per emergere, occorrono talento e fortuna.

Lei crede di essere stato anche fortunato?

Puoi sostenere un provino al meglio. Poi però subentrano le variabili incontrollabili. Come per esempio essere al posto giusto al momento giusto, azzeccare il ruolo adatto. Ma se ci sono talento e studio alla base, il tempo può essere galantuomo.

È vero che lei aveva un piano B, ed era fare il calciatore?

No (ride, ndr). A un’intervista su 1992 mi è stato chiesto che cosa sognassi per il mio futuro in quel periodo e io dissi che, da quel che ricordavo, a sette anni volevo diventare un calciatore professionista, come tutti i bambini.

Ora che cosa sogna per il suo futuro?

Mi piacerebbe un ruolo in costume. Una serie o un film ambientati in un’epoca molto distante da questa. Ne sarei entusiasta.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Domenico Diele)