Pubblicato il 18/11/2016, 14:30 | Scritto da La Redazione

Michele Santoro: In Rai non si sperimenta più

Cerco senso ma in Rai non lo trovo

Rassegna stampa: Il Venerdì, pagina 43, di Luigi Irdi.

“Non inventa più nulla, tira soltanto a campare”. Questo il giudizio sulla tv pubblica. Ma Michele Santoro, che ora punta al grande schermo, ne ha per tutti. Da Renzi a Grillo.

La tesi è che dal giornalismo con relativi commenti in studio si possa utilmente passare alla narrativa tv, più bella, più coinvolgente, più pura. Dopo il primo assaggio della nuova trasmissione Italia (un viaggio nel sesto girone dantesco di Ibiza, tra eretici, epicurei e ricchi per un giorno), Michele Santoro piazza una scommessa su Robinù, film documentario in uscita a dicembre (scritto con Maddalena Oliva), cinepresa sui baby boss della camorra napoletana cooptati nel mainstream dell’idea di rottamazione, in questo caso dei vecchi capiparanza. «L’idea è svelare il volto di una sorta di Stato sociale criminale. Ci sono decine di migliaia di persone che in quella immensa piazza di spaccio d’Europa che è Napoli vivono attorno a attività criminali. Dico Stato sociale perché senza quelle entrate molta gente non saprebbe come vivere».

Lo Stato sociale criminale governato dai ragazzini.

«Al vertice ci sono sempre i boss che governano grandi partite di traffico, alla base i manovali, del tutto simili a normali lavoratori, come la mamma spacciatrice che all’inizio della giornata prepara i bambini per la scuola e poi si mette al lavoro. E poi questi ragazzini che a nemmeno 18 anni sono pronti a sparare e a morire per farsi largo nella vita».

Non che a Napoli sia una grande novità.

«Eh no, lo è eccome. Quando in un’incursione di queste bande giovanili (le chiamano stese, assalti a cavalcioni dei motorini e armi in pugno) viene trovato un bambino di 8 anni con la pistola, qualcosa di diverso sta succedendo».

Roba da fiction seriale.

«Infatti. Ma si capisce che la fiction tv non ha inventato un mondo e che ciò che ci ha mostrato esiste davvero».

Ma come, scusi? Per decenni abbiamo detto che la tv ha mostrato un mondo e un Paese inesistente. Lei stesso ha scritto che la televisione deve tornare alla “ricerca di un senso delle cose”. Bentornato nella realtà anche a lei e bentornato nella ricerca di senso.

«A me veramente pare di averlo sempre cercato, il senso. La ricerca del senso non ha a che vedere con la mia personale esperienza, bensì, direi, con l’ultima fase della televisione. È una televisione a pezzi, nel senso stretto dell’espressione».

Ovvero?

«Beh, la tv tende ormai a produrre se stessa “a pezzi”, sapendo che la Rete ne raccoglierà e rilancerà alcuni, qualche minuto, in un processo ormai inarrestabile di frammentazione dei fatti e dei pensieri. La Rete è un gigantesco blob di massa auto costruito. Prima avevamo Blob, una riflessione d’autore sulla tv. Ora ognuno ha il suo blob sui social media, costruito in ragione di se stesso. Il che porta a un indebolimento pesante della ricerca di senso, porta alla provvisorietà dei comportamenti, anche dal punto di vista politico».

Ognuno con il suo quotidiano palinsesto di vita e pensieri. Ci illumini anche sul “comportamento politico provvisorio”.

«Oggi siamo tutti grillini e domani potremo essere un’altra cosa. Non ci sono sedimentazioni che si costruiscono per rimanere. È un fenomeno molto visibile nell’informazione in tv».

Cosa guarda?

«Quello che guardano tutti. Molti programmi di approfondimento e milioni di persone che li seguono, il che conferma che c’è ancora una domanda forte di comprensione. Ma si fa fatica a costruire trasmissioni che abbiano una chiarezza di intenti. Sono fatte a pezzi anche loro. Tessitura breve e sincopata».

Chiaro. E la conseguenza qual è?  

«Che sebbene questi programmi conservino una indubbia utilità, nessuno di essi riesce a suscitare un dibattito pubblico ampio e profondo, a sollecitare le coscienze o l’agenda politica».

Lei si sta pericolosamente avvicinando all’eterno mantra di “servizio pubblico” che con incerti successi ha marchiato negli anni la Rai. Come recita appunto il mantra, “la più grande industria culturale del Paese”.

«Su questa faccenda del servizio pubblico c’è in primo luogo un grande equivoco. I dipendenti della Rai pensano di essere loro gli artefici del servizio pubblico».

Invece no?

«Lo sarebbero se lavorassero per consentire al meglio delle risorse culturali della società di esprimersi. La Rai dovrebbe essere un network al servizio delle idee che nascono all’interno della società. Dovrebbe impiegare le sue risorse per realizzare prodotti, mentre gran parte di esse servono a tenere in piedi l’apparato dei dipendenti».

Ah, però. Ci va giù duro. Un esercito di mangiapane a tradimento.

«Il punto è che nel mondo della televisione si sta consumando un grande divorzio tra una parte di pubblico colto, con più mezzi economici, che sa scegliere, e una grande fetta di telespettatori ormai confinati nel trash. La Rai dovrebbe lavorare su questo».

E come?

«Dovrebbe impedire che avvenga questo divorzio. Le produzioni dovrebbero essere sempre dirette a un pubblico, per dir così, medio alto, colto, ma anche a un pubblico più popolare che potrebbe ancora sentire la Rai come strumento di emancipazione culturale».

E la Rai non è capace di fare questo. O proprio non afferra l’idea? Non capisce i bisogni del Paese?

«Eh, bèh, qui bisogna vedere chi sono le persone che dovrebbero capire».

Andiamo sul personale?

«Mah, pensiamo a cos’era Rai 3. Diretta da un genio come Angelo Guglielmi, circondato da collaboratori come Bruno Voglino, Lio Beghin o Giovanni Tantillo, e altri. Gente che sapeva guardare intorno e scoprire talenti: Chiambretti, Dandini, Guzzanti, e compagnia varia. Non so se è poco. Oggi il dirigente intermedio Rai non fa questo».

E che fa?

«Va da un produttore di format esterno e gli chiede: cos’hai da vendermi? E tanti saluti. Tenendo conto poi che la sua autorità deriva da qualche input politico».

Ecco fatto. Così son capaci tutti.

«Si va a finire così in una sorta di gigantesca operazione di ordine pubblico. Tutti sono tranquilli e nessuno si agita più di tanto».

Cura del sonno?

«Un esempio. Una volta facevi, che so, La Piovra. Ne discuteva tutto il Paese, ci si chiedeva se quel determinato personaggio somigliava ad Andreotti o no e così via. Quella roba entrava nel circuito del dibattito pubblico come un elemento di disordine, creativo. Costringeva tutti a farsi delle domande. Ora tutti a nanna. Si tira a campare, ecco, non a scoprire cose nuove».

Ci vuole anche una politica disposta a permetterlo.

«Chiaro. Il declamato riformismo di Matteo Renzi ha nella Rai un nodo di verifica importantissimo. Io capisco che chi desidera davvero riformare il Paese se la debba vedere con interessi potentissimi e organizzatissimi. Ma nel caso della Rai, questo alibi non c’è. Paradossalmente è più facile avviare una grande riforma culturale nella e con la Rai. Qui si vede se sul serio vuoi riformare la società».

Scusi però Santoro, lei sta teorizzando un potere così illuminato da darsi la zappa sui piedi, disposto a farsi mettere in discussione dall’industria culturale che controlla. La vedo dura.

«E allora vuol dire che la Rai non è in grado di fare il suo mestiere di servizio pubblico e di correre più veloce della politica. Con una Rai strumento di consenso non ci facciamo nulla, ovvio. Bisogna vedere se un’idea riformista è capace di liberare i cavalli e farli correre».

Ci vuole capacità di visione per questo. Visto che per quarant’anni se l’è girato in lungo e in largo, lei che Paese vede ora?

«Un Paese molto in bilico. Che deve stare attento a non tornare indietro. In politica per esempio vorrei una bella sfida tra Renzi e il Movimento 5 Stelle capace di produrre qualcosa di veramente nuovo. L’idea di tornare nel vecchio pantano, ai governi tecnici e roba del genere, credo sia la cosa peggiore che ci può capitare».

Ma lei davvero vede in giro grandi visioni?

«Mah, mi sembra tutto molto orientato alla ricerca di consensi immediati. Diciamo che se dobbiamo cercare il senso nuovo nella tv, anche la politica dovrebbe cercare il suo, di senso. La domanda è chi e come e se sarà in grado di dare una risposta solida. Invece vedo i leader campare ogni giorno nel tempo di un tweet per dar corda a un’opinione pubblica mutevole e leggera. Però non vorrei nemmeno fare l’errore di buttar via il bambino con l’acqua sporca».

Laddove i bambini sarebbero Renzi e i 5 Stelle?

«Beh, se teniamo conto dell’età dei protagonisti, certo. Vorrei che si potesse estrarre il meglio in questo confronto. I 5 Stelle sono ormai un partito con tendenze leniniste che criminalizza il dissenso. Renzi è condizionato da questo senso di autosufficienza che è il suo più grande limite. La Rai potrebbe aiutarlo».

E come?

«Per esempio aiutandolo a capire che il mondo non finisce a Rignano sull’Arno».

Lei ha già deciso come votare al referendum costituzionale?

«No, non ho ancora deciso».

E si aspetta che io ci creda.

 

(Nella foto Michele Santoro)