Pubblicato il 14/11/2016, 14:34 | Scritto da La Redazione
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L’irrefrenabile ascesa di Urbano Cairo. Un successo che inizia dal nome

Cairo, l’uomo del momento giusto

Rassegna stampa: Libero, pagina 10, di Francesco Specchia.

In greco il suo cognome significa “momento giusto”. Dagli inizi con Silvio fino a Rcs l’editore non ha fallito un colpo. Il suo segreto? Pensare con la testa di chi compra.

Kairos, in greco, significa «momento opportuno», l’esatto istante in cui una cosa speciale accade, per abilità umana o per una straordinaria botta di culo. Nel caso di Urbano Cairo un nome, un destino valgono, da sempre, entrambi gli elementi. Oggi, tutti noi cronisti naturalmente tesi all’arte della piaggeria, di Cairo festeggiamo l’imperlata di successi, ossia la trimestrale di Rcs che «ha chiuso i nove mesi con una perdita di 17,4 milioni dal rosso di 126,4 milioni di un anno prima, margine operativo salito a 51 da 18,7 milioni, benefici pari a 51,7 milioni» di cui 37,7 milioni in Italia e 14 milioni in Spagna dove le testate El Mundo, Marca e Expansion, dopo anni di buio, paiono essere toccate da grazia innaturale. Ma ci fu un tempo in cui l’Urbano, classe ’57, oggi padrone del Torino, e di La7 e del Corriere della sera, e della Cairo Communication, nonostante l’attivismo da maverick americano e la faccia gaglioffa da film di Jean Gabin, era costantemente confinato nell’ala della servitù del Palazzo del potere. E Cairo, di irrompere nei salotti del Palazzo, ne ha fatto punto d’orgoglio. Nipote d’un nonno contadino, figlio di un rappresentante di mobili e di un’insegnante, Cairo è milanese di nascita ma proviene in realtà da Masio, paese incastrato tra i profumi della Val del Tanaro sulle colline alessandrine: 1.500 abitanti tutti abituati a vivere caparbiamente sotto la cresta dell’onda. Sarà per questo che il Kairos, in Cairo, ha virato sulla nemesi storica. La sua, più che l’epopea industriale da grande editore alla Pulitzer, ricorda quella del Conte di Montecristo.

CON BERLUSCONI E il suo romanzo inizia nel 1995, sede di Edilnord. 8880, la traccia genetica della Fininvest che verrà. Colori sgargianti, via vai di venditori, Marcello Dell’Utri che passa e scompare risucchiato dalle riunioni. La segretaria al centralone che s’accascia visibilmente estenuata dal giovane bocconiano – l’Urbano, appunto – lì impilato, il quale allegramente la stalkerizza per ottenere udienza presso il Capo. «Ho due idee eccezionali che vorrei spiegare al dottor Berlusconi. Se lei non mi permette di parlare con lui, lei rischia davvero di fargli un danno». Passa allora il Berlusca. Il ragazzo lo placca, con una berlusconata: «Presidente, mi guardi, non vede le bollicine d’intelligenza uscirmi dagli occhi?». Silvio le vede: bollicione da show d’illusionista. Sicché subito assume Cairo, ne incanala l’estro nel marketing e nella raccolta pubblicitaria; lo rende, in breve, suo assistente personale e dirigentone, direttore commerciale, vicedirettore generale in Fininvest e Publitalia, amministratore delegato di Mondadori Pubblicità. Dopodiché Urbano litiga con Dell’Utri – screzi feroci in seguito a Mani Pulite -, viene licenziato, esce da Tangentopoli con un falso in bilancio patteggiato («Ritenevo fosse la cosa più giusta pur non avendo fatto nulla»); e, dall’abisso, fonda la Cairo Pubblicità, un ufficetto con un pugno di mastini sguinzagliati in tutt’Italia a rastrellar dinero.

Lo spirito che lo anima è una romanzesca vendetta dumasiana; e il desiderio freudiano dell’uccisione del padre Silvio. Nel suo disordine creativo l’emulazione berlusconiana si riflette in ogni suo arrembaggio; lo chiamano «Berluschino», lui finge d’irritarsi e fa di tutto per arrampicarsi sulla vetta. Addirittura al matrimonio di Silvio e Veronica regala loro un suo ritratto. Nel 1999 Urbano sborsa 15 miliardi per acquistare la Giorgio Mondadori e il suo patrimonio di testate mensili di qualità. Poi parte all’assalto dei popolari, ingaggiando i direttori fuoriclasse Sandro Mayer e Silvana Giacobini. Palta tipografica, secondo i soliti fighetti dei salotti che continuano a snobbarlo. Cairo risponde loro, sul Foglio, da editore puro: «Non è vero che con i giornali non si possono fare soldi. Io li faccio. Ma quando fai un giornale devi parlare al pubblico. E quindi devi pensare con la testa di chi compra, non con la testa dei padroni. Altrimenti la gente se ne accorge. Certe volte ho l’impressione che alcuni editori italiani non siano interessati a vendere. Presidiano uno spazio, per ragioni d’interesse finanziario o politico, per proteggere altre loro attività. I miei mensili e settimanali possono non piacere a qualcuno. ma vendono».

Non vendono, stravendono. DiPiù, fatto di tronisti, cani e Padre Pio, arriva a toccare il milione di copie. A presidiare quest’impero editoriale è Giuseppe Ferrauto, Mazarino palermitano divoratore pregiato di carta stampata, uno del ristretto inner circle dell’Urbano. Gli altri del cerchio magico sono Marco Pompignoli della Cairo Communication e Marco Ghigliani, l’ad de La7. Cairo, che dorme 3/4 ore al giorno come Berlusconi li convoca anche di notte. E li fa passeggiare assieme a lui, spingendoli nella notte milanese, come un furioso Socrate, alla ricerca del prodotto più giusto, della spending review più azzardata, dell’operazione più saggiamente spregiudicata. Chi, tra i manager peripatetici, sopravvive, assurgerà al regno dei cieli. E i cieli di Cairo si sovrappongono, sono sogni stratificati: la sua scalata è inarrestabile. Nel luglio 2000 battezza in Borsa la Cairo Communication spa, nel 2003 fonda la Cairo Editore e due anni dopo, preso dalla nostalgia da ex ala destra alla Claudio Sala, acquista il Torino Football Club 1906 portando la squadra subito in serie A per poi affossarla in retrocessione e poi di nuovo farla promuovere in A (oggi è sesta in classifica, due punti più dell’Inter). Nel frattempo alimenta, nel proprio nome che diventata marchio, premi di arte contemporanea e una casa editrice interna di libri.

PRENDE LA7 Gli manca, nella geometria della conquista berlusconiana, la tv. Si prende La7 da Telecom in perdita di 100milioni. Essendo uno speleologo dei bilanci, un maniaco del controllo minuzioso delle fatture, Cairo quasi sviene alla scoperta che la tv di Telecom spende 500mila euro di taxi: «Mentre studiavo i bilanci sono stato folgorato da un pensiero. Mi stavo lavando le mani, ho guardato l’orologio e ho pensato: è passato un minuto. Ecco, ho perso mille euro». Poi, però, con una campagna acquisti da molti criticata – compreso chi scrive -, affianca al campione della rete, Enrico Mentana, fior di star che spingono l’audience verso l’alto. Con Mentana il rapporto è altalenante: una volta lo titilla al punto dicono da pensarlo alla direzione della Gazzetta dello Sport, un’altra è in grado tranquillamente di cazziarlo alle 4 del mattino per non aver allestito uno Speciale del Tg per le elezioni Usa. Mentana, di contro, su Cairo afferma: «Fa sua la massima di Deng Xiaoping: non importa se il gatto sia bianco o nero, conta che mangi il topo», ritenendolo l’editore perfetto, che bada più al profitto e agli stipendi dei dipendenti si vanta di non aver mai licenziato nessuno che alla politica. Ecco, in questo, nella passione politica, Urbano si differenzia da Silvio: si sa solo che ha votato per la Dc di Zaccagnini, mai per la Lega, una volta per Forza Italia, poi il suo voto si perde nel vento delle partite doppie, dei pacchetti azionari.

Cairo, nei rapporti umani è così, un po’ Trump un po’ Olivetti: assorbe il parere di tutti, dall’usciere al dirigente, e tratta dipendenti, amici e nemici allo stesso modo. Risponde al telefono direttamente e come diceva Bazoli, con un pizzico di cianuro «è un tipo educato, che quando esce spegne sempre la luce». L’uomo possiede una resistenza al tungsteno. L’ho sentito lamentarsi solo una volta: quando, un tantino intristito dai mostruosi orari di lavoro (passa tutto il giorno in Rcs a controllare le 4.000 fatture al mese fino a mezzanotte, salvo i giorni in cui è Roma e a Torno, con capatine una tantum in Spagna) s’è lasciato scappare: «Questa settimana non sono riuscito a vedere i miei bimbi…». E avendo Cairo quattro figli da tre matrimoni, capirete che l’assenza assume il contorno d’un caso di Stato.

EFFETTO MONTECRISTO Torno a La7. Che, ovviamente, diventa una sorta di Bbc italiana e Cairo vuole per sé anche il canone: «Dico che oltre a togliere pubblicità a una rete Rai si dovrebbero limitare gli spazi pubblicitari a disposizione di Viale Mazzini». Poi c’è il sogno del quotidiano. A fine 2012 Cairo pare intenzionato a realizzarlo: sta per fondare un quotidiano popolare alla Sun, cronaca nera, gossip e calcio a go go; e, dopo aver sondato Vittorio Feltri, manda il papabile direttore Andrea Biavardi in giro a fare campagna acquisti. Ma capisce subito che il giochetto è costoso, sicché, per non smentirsi, ingloba il sogno più piccolo nel sogno più grosso: scala Rcs e col 48,8% assume il controllo del Corriere della sera. Dove procede con i tagli, sfianca di riunioni manager e giornalisti. «Mi sono sentito un po’ come il conte di Montecristo: un uomo che ha fatto il miracolo passando dall’ingiustizia della condanna al grande rilancio, dimostrando capacità di risalire la china», confessa l’Urbano, per l’appunto. Ognuno ha il Kairos che si merita…

 

(Nella foto Urbano Cairo)