Pubblicato il 25/10/2015, 19:40 | Scritto da Gabriele Gambini
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Pierfrancesco Favino: «”Marco Polo” è il racconto di un’avventura straordinaria»

«È ingiusto accostare la realtà produttiva italiana delle generaliste a quella seriale americana: sarebbe come confrontare le prestazioni di una Punto con quelle di una Ferrari. Entrambe le auto hanno dignità e offrono un servizio eccellente, ma il budget con cui sono confezionate è molto diverso», dice Pierfrancesco Favino, portabandiera tra gli attori italiani dell’avvento di Netflix nel Belpaese col suo ruolo nella serie Marco Polo, di John Fusco. La serena incisività della sua voce ne incoraggia la franchezza del sorriso: Favino ha ormai superato lo scaglione anagrafico degli attori quando hanno bisogno di sostegno dalla stampa e può permettersi di raccontare le sue scelte senza equilibrismi di maniera. «Ormai, in 26 anni di carriera, non sono più a rischio etichettature», commenta.

Quando si parla di serialità americana si dice: ha una dimensione cinematografica.

La dimensione del set è alla pari con quella dei grandi blockbuster. La tranquillità produttiva si avverte anche nel lavoro: beneficiare di 5 ciak anziché di 2, consente maggior concentrazione sul personaggio.

La differenza col cinema però esiste.

Nella grande serialità ti confronti con molti registi, anziché con uno soltanto. In Marco Polo erano 5, ciascuno con la responsabilità di un paio di episodi. Cambiano le dinamiche di relazione e la gestione del set, benché sia garantita l’uniformità di fondo.

L’ultima serie di Marco Polo nota era quella di Montaldo per la Rai. Erano gli anni ’80.

Sono passati molti anni. A quei tempi, anche le generaliste potevano permettersi investimenti cospicui, oggi non più pensabili.

Dunque l’avvento di Netflix garantisce quel tipo di ritorno al passato? O di ritorno al futuro, volendo.

Garantisce diversificazioni tematiche e facilità di avvicinamento del pubblico: basti pensare che disdire l’abbonamento a Netflix è molto semplice, non ci sono vincoli. Nel contempo, si beneficia di grosse opportunità creative, che fanno bene all’Italia. Pensiamo a Suburra, il film. Noi siamo usciti il 14 ottobre in sala e nello stesso giorno negli Stati Uniti, in America Latina ed in Canada è stato possibile vederlo su Netflix. Significa che ci sono 50 milioni di persone che hanno la possibilità, cliccando, di guardarlo. Per il cinema italiano è un volano incredibile.

Si è molto insistito sulle grosse opportunità creative a livello tematico.

Pensate a una serie come Breaking Bad: non è consolatoria, intercetta un ampio spettro di pulsioni del pubblico e costruisce una storia ad alto impatto, in un sapiente incontro di realismo e di fiction. Accade anche con Suburra: si parte dall’adesione a fatti di cronaca, ma li si rielabora con taglio narrativo. D’altronde, il pubblico, da un film o da una serie non si aspetta la narrazione di fatti che già conosce. Si aspetta che quei fatti assurgano al grado di mito, con licenze storiografiche consentite.

Accade anche in Marco Polo?

John Fusco, con Marco Polo, ha compiuto 7 anni di ricerche sulla cultura mongola e cinese per imbastire una narrazione dal solido corredo storico. Da lì è stata elaborata la sceneggiatura, che si permette licenze capaci di catturare il pubblico con la forza affabulatrice di una bella storia.

Dove avete girato?

Siamo partiti da Venezia, poi siamo andati in Kazakistan e in Malesia.

Una commistione di luoghi con l’italianità a far da fil rouge.

Marco Polo è una storia italiana. Si tratta di un eroe nazionale. Da questo punto di vista l’italianità è ben presente. Così come lo è l’avventura: Il Milione, del resto, è un bellissimo racconto d’avventura e di coraggio.

Il suo ruolo di Nicolò Polo, padre di Marco, si intreccia con quello di Lorenzo Richelmy, che a Marco dà volto e anima.

Lorenzo è stato bravissimo. Stiamo parlando di un attore giovane che ha saputo fronteggiare al meglio l’impegno su un set internazionale. Ho cercato di dargli dei consigli, aiutandolo a gestire la pesante responsabilità. Nella serie, il rapporto padre e figlio è sviscerato anche attraverso lati oscuri, non solo mostrando un affetto lineare.

Dopodiché su Netflix arriverà Suburra-La serie. Sarà coinvolto direttamente nel progetto?

Per ora mi fa molto piacere che sia stato scelto un progetto che mi ha visto tra i protagonisti al cinema, con la regia dell’ottimo Stefano Sollima e il coinvolgimento di Rai e Cattleya. Un’opportunità di lavoro significativa per l’Italia. Per tutto il resto, non ho avuto modo di parlarne.

Gabriele Gambini
(nella foto, Pierfrancesco Favino)