Pubblicato il 13/09/2015, 15:04 | Scritto da Emanuele Bruno

Sabrina Mancini: “Branded content: l’autore fa la differenza. Generi? Proverei il medical”

Sabrina Mancini: “Branded content: l’autore fa la differenza. Generi? Proverei il medical”
Ha lavorato in Rai, Toro, DueB e ora è una free lance. Abbiamo incontrato l’autrice che, per prima, ha esplorato i contenuti televisivi dal forte product placement.

I soldi li mette l’azienda, è spesso decisivo il centro media, non si può prescindere dalle capacità realizzative delle case di produzione. Ma è l’idea creativa, il trattamento azzeccato che tracciano la linea di demarcazione tra il prodotto riuscito, l’operazione da ripetere e quella destinata all’oblio. La branded tv è costruita in provetta e ha l’advertising nel dna, ma per funzionare deve riuscire a emozionare e divertire. Così l’aggiunta di una sorta di soffio vitale marca la differenza qualitativa nella quota crescente di programmi tv, in cui la presenza delle marche è strutturale. Solo di recente da progetti molto essenziali si è passati a prodotti più solidi e curati. Un miracolo che si deve al lodevole salto di qualità culturale di tutti gli attori del comparto, ma per il quale rimangono decisivi l’apporto creativo e il punto di vista laico dell’autore.

Raccogliendo pareri ed esperienze sul branded entertainment, TvZoom ha chiamato in causa quasi tutti i protagonisti dell’articolata filiera ideativa e produttiva (leggi qui le puntate precedenti). Stavolta a raccontare la sua esperienza è un’autrice, Sabrina Mancini. Passione, formazione e avvio della carriera incentrati su letteratura e teatro, lunga militanza in Rai prima di lavorare in ruoli apicali per le più importanti case di produzione italiane (impegnata su format e trasmissioni sofisticate, ma anche su grandi successi popolari), tra il 2009 e il 2012 è stata Head creative producer di Toro Produzioni e fino all’anno scorso direttore artistico di DueB Produzioni. Come consulente artistico di Yam110023 Mancini ha appena scritto un nuovo programma destinato all’autunno di Real Time, Paso Doble. Il connubio tra pubblicità e tv? Mancini non ha la puzza sotto il naso e dice di avere da sempre considerato il branded content una sfida stimolante.

Come e quanto, in generale, è cambiata la maniera di fare il branded entertaiment in questi anni?

È in atto una vera e propria rivoluzione. I programmi branded sono sempre più curati ed entertaining. Alcune reti in particolare (per esempio quelle del Gruppo Discovery) non manderebbero mai in onda programmi in cui gli sponsor vengano inseriti sfacciatamente. Questo garantisce quasi sempre la qualità del prodotto. Dico quasi sempre perché (purtroppo) ci sono altre reti che, pur di fare palinsesto, accettano di mandare in onda programmi branded che assomigliano tristemente alle più banali telepromozioni.

In quanti programmi branded ha lavorato? Quando ha iniziato a farlo?

Considero come “prima volta” delle telepromozioni molto innovative che scrissi e realizzai all’interno di Linea Verde nel lontanissimo 1998. La compagnia era Infostrada, la loro agenzia era molto molto avanti e aperta a nuovi stimoli. La Rai, d’altro canto, non voleva telepromozioni “sfacciate” all’interno di un programma che – allora – faceva fra il 35 e il 40% di share ogni domenica. Inventammo insieme piccole “linea vergine” con alcuni personaggi già in onda su Linea Verde (tipo il comandante del nostro elicottero) e giovani attori. Giravamo nelle stesse zone delle puntate, realizzando brevi docufiction sui temi tipici della trasmissione. Al loro interno, l’inserimento dello sponsor era sempre molto creativo e funzionale. Una grande scuola, allora non si chiamava branded content, ma era molto vicina al tipo di creatività che ho sempre cercato di mantenere. Il primo programma branded in senso più stretto l’ho scritto per Toro più o meno 5 anni fa, mentre stavano preparando la legge che avrebbe regolato il settore. Era un programma sulla bellezza e il benessere dal titolo I miei primi 40 anni. Da una pilota in onda su LeiTV, la Sony riuscì a vendere un’intera serie alla televisione di stato russa. Fu divertente andare là a collaborare alla loro prima puntata. Da allora, ho scritto diversi format. Due sono andati in onda (e ancora vanno) su La5. Altri sono in attesa presso vari canali.

Quali sono state le sue esperienze recenti più interessanti?

Due format andati in onda su La5 anni fa (prodotti dalla DueB). Si tratta di Vieni a vivere con me (2 edizioni, in replica tuttora) e Bella più di prima (alla terza edizione). Vieni a vivere con me è un’idea a cui tengo molto. Un architetto e una life stylist aiutano giovani coppie che vanno a convivere a casa dell’uno o dell’altra, a conciliare diversi stili, mobili pre-esistenti, e oggetti che ricordano precedenti relazioni sentimentali, mettendo in atto un make over della casa per andare incontro ai gusti della ‘vittima’, di colui, insomma, che è andato a vivere in una casa già predisposta dall’altro. Prima è venuta l’idea del format. Una volta trovati i clienti-sponsor l’ho adattata a loro. In ogni puntata mi sono sforzata di trovare soluzioni creative, divertenti e inusuali per inserire i brand. Ha funzionato: tutti contenti, rete e sponsor.
Il secondo format molto fortunato è stato Bella più di prima. Questo è nato pensando già all’inserimento di importanti brand di chirurgia estetica, odontoiatria e cura dei capelli.

Pensa già dall’inizio anche alle declinazioni su Internet e social?

Sì, è inevitabile, ma non le seguo io.

Quanto è difficile il ruolo dell’autore, stretto tra le esigenze economiche e i vincoli di tutta l’articolata filiera, cliente in primis?

È complicato, ma molto stimolante, e cruciale. Per far sì che le operazioni riescano è essenziale che il cliente si fidi e si affidi. E che apprezzi la creatività. Le difficoltà esistono sia nella fase di presentazione del format al cliente, sia (e soprattutto) in fase di realizzazione. È difficile convincere il cliente che l’inserimento del brand funziona molto meglio se è quasi impalpabile, perché la sovraesposizione rischierebbe di irritare e allontanare il pubblico. Nelle fasi di presentazione del format, invece, capita tuttora che le piccole aziende si spaventino per gli investimenti richiesti, mentre le grandi aziende solo adesso si stanno affezionando a questo tipo di pubblicità.

Ha lavorato su cibo, gusto, territorio in un periodo in cui non c’erano ancora tanti format dedicati a questo che è diventato un macro genere…

Essendomene, appunto, occupata per anni a partire dal 1992, trovo un po’ difficile appassionarmi a tutti i programmi esplosi negli ultimi anni. Rimango però una grande fan di MasterChef, più per il meccanismo (perfetto) che per il trattamento del cibo. Credo che il genere andrà ridimensionandosi, senza sparire del tutto.

Quali altri filoni le sembrano più interessanti e meno esplorati in questa fase?

Amo alla follia la docufiction, sia come spettatrice che come autrice. I filoni che ritengo più interessanti sono quelli sull’integrazione, i costumi e le tradizioni dei popoli e il medical. Il medical è un filone non ancora esplorato in Italia, una bella sfida e contenuti importanti che possono (inglesi e americani insegnano) sfociare in programmi di grande intrattenimento.

Quali meccanismi si potrebbero ancora utilizzare oltre a quello prevalente del talent?

Docufiction e quiz. Il quiz è un evergreen di largo respiro, con grande presa sul pubblico, e molto divertente per produttori-autori.

 

Emanuele Bruno

 

(Nella foto Sabrina Mancini)