Pubblicato il 11/09/2015, 11:33 | Scritto da La Redazione
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Vespa resiste, il dg adesso cambia i direttori di rete – La realtà persa sulle poltrone del talk show

Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 5, di Carlo Tecce.

Vespa resiste, il dg adesso cambia i direttori di rete

“Porta a Porta” rischia, ma solo dalla prossima stagione. Via Andrea Vianello da Rai 3.

Quest’anno per Porta a Porta è la stagione numero ventuno. In televisione la longevità non è mai casuale. Il tempo ha eroso gli ascolti di Porta a Porta, ma non il potere di Bruno Vespa, che da solo rappresenta l’informazione di Rai 1 e da solo monta e smonta speciali, serate di politica, cronaca, costume e riempie i buchi in palinsesto. La puntata con i parenti del boss Vittorio Casamonica – lo scanzonato commento a un funerale di un clan che ha allarmato (in ritardo) istituzioni, prefetti e polizia – ha diviso il Cda di Viale Mazzini e la stessa azienda: difensori d’ufficio, argute disquisizioni e un po’ di critiche. Ma stavolta Vespa ha incassato la bocciatura di Antonio Campo Dall’Orto, il direttore generale di estrazione renziana: “Questo non è il servizio pubblico che ho in testa”. Per adesso, è un concetto. Niente di più. Il consulente Vespa (non è un dipendente da anni) ha un contratto che gli garantisce la messa in onda almeno fino all’estate del prossimo anno. La questione non riguarda il presente di Vespa, ma il futuro di Porta a Porta: coincide con l’idea di televisione di Campo Dall’Orto? Pare di no.

Renzi ha un rapporto idilliaco con Vespa, ma per interpretare meglio la posizione del governo è interessante leggere le dichiarazioni di Antonello Giacomelli, il sottosegretario con delega alle Comunicazioni. Giacomelli fa un giro di parole senza assolvere Vespa: “La valutazione che deve essere fatta in questi casi riguarda, a mio modo di vedere, prima di tutto l’opportunità. Poi nella valutazione hanno un peso importante anche il contesto e il linguaggio televisivo che si scelgono, la completezza informativa e l’adeguato contraddittorio”. L’episodio di martedì con i Casamonica suggerisce a Campo Dall’Orto di intervenire sugli uomini che reggono la struttura, i direttori di rete. Giancarlo Leone, il capo di Rai 1, è il principale indiziato. Il patto di Viale Mazzini fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi ha prodotto la nomina a presidente di Monica Maggioni e la (promessa) qualifica di vice dg a Leone. Per Rai 1 è in corsa Angelo Teodoli, apprezzato per gli egregi risultati a Rai 2. Andrea Vianello sta a Rai 3, ancora per poco. L’inventore di Agorà ha sperimentato molto e fallito spesso. Chiuderà l’esperienza a Rai 3 con l’esoso flop di Gianni Riotta di Parallelo Italia. Per la terza rete c’è un ballottaggio fra Simonetta Ercolani (conosciuta per il programma Sfide) e Andrea Salerno (mente e volto di Gazebo, voce di Superstoria, fra le altre cose).

Quando a inizio agosto ha convocato i dirigenti di Viale Mazzini, il nuovo dg ha giurato che saprà conservare l’eredità di Luigi Gubitosi, molto attento al bilancio e molto vago sul prodotto. Gubitosi è già dimenticato. Il renziano Antonio, riemerso dopo La7 e Mtv sul pulpito della stazione Leopolda, ha già avviato il repulisti e notificato gli avvisi di sfratto (è presto per l’esecuzione) ai vertici di Rai Pubblicità e dell’ufficio del personale. In Viale Mazzini gli orfani di Gubitosi non avranno spazio. A dicembre, poi, toccherà ai telegiornali, ai contratti e agli appalti esterni. Per scongiurare risse in Cda e imboscate del presidente Maggioni, Campo Dall’Orto aspetta i poteri magici previsti dalla riforma di Viale Mazzini appena sbarcata a Montecitorio (e approvata in Senato un mese fa): non sarà più un direttore generale che deve mediare, ma un amministratore delegato che può comandare. Comandare: è lo spirito di quest’epoca. È lo spirito renziano.

 

Rassegna stampa: Il Mattino, pagina 42, di Massimo Adinolfi.

La realtà persa sulle poltrone del talk show

Se fosse possibile mantenere un filo di leggerezza, si potrebbe scomodare una massima evangelica: «oportet ut scandala eveniant». E cioè: un bello scandalo è proprio quel che ci voleva. Non però per tirar sugli ascolti, o per inaugurare con il botto la nuova stagione televisiva, ma per avviare una riflessione più generale sul giornalismo televisivo. Che s’è seduto sulle poltrone e i divanetti dei talk show, e di lì si schioda sempre più faticosamente, sempre più difficilmente. Naturalmente, la riflessione deve andare oltre l’indignazione o l’amarezza per la trasmissione di Porta a Porta dell’altra sera, quando sono stati ospiti di Bruno Vespa la figlia e il nipote del patriarca del clan dei Casamonica, già omaggiato nei giorni scorsi a Roma di uno sfarzoso funerale. Lì dove si sono seduti nelle passate stagioni, e ancora si siederanno, le più alte cariche dello Stato, nonché personaggi celebri del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo. Proprio lì erano accomodati Vera e Vittorino Casamonica, a raccontare quanto fosse grande il «re di Roma». La trasmissione ha sollevato un’ondata robustissima di critiche. Al cui centro però non può trovarsi il semplice fatto che Vespa ha dato la parola ai familiari del boss deceduto. Il giornalismo dà la parola a chiunque abbia qualcosa da raccontare, a chiunque permetta di comprendere fatti e circostanze meritevoli di attenzione, a chiunque consenta di avvicinare e conoscere pezzi del nostro Paese, per gradevoli o sgradevoli che siano. Ci si regola in base alla notizia: se la notizia c’è, la si dà. Ed è una notizia ascoltare chi fosse Vittorio Casamonica secondo i suoi familiari. Del resto, è evidente: quale giornale non ospiterebbe un sevizio, un’inchiesta, un reportage che aiutasse a capire i mondi-di-mezzo da cui, lo si voglia o no, sono lambite anche le nostre esistenze?

Quello dei Casamonica è uno di questi mondi: nei codici di comportamento, nelle abitudini di consumo, persino nei gusti musicali, e naturalmente nel coacervo di interessi e nelle dinamiche sociali intrise di violenza che lo attraversano. Il motivo di riflessione, dunque, è un altro. E cioè non se queste cose si devono vedere, sapere, raccontare, ma come lo si possa fare. Come, e dove. Lo studio televisivo con le poltroncine sul proscenio da molti anni signore incontrastato dell’approfondimento giornalistico nella televisione italiana è il mezzo, è il luogo adatto? Funziona allo scopo? Di sicuro è funzionale ai costi. Per fare uno share di tutto rispetto, infatti, di soldi ce ne vogliono pochi. Ci vuole senz’altro un buon conduttore e una buona redazione, ma poco altro. O meglio, quell’altro che ci vuole è l’Ospite. Il quale ospite rientra necessariamente in una di queste due categorie: o è una personalità di riconosciuta autorevolezza, o è persona. che dall’apparire in trasmissione ricava una autorevolezza, se non riconosciuta, riconoscibile dal pubblico. E dunque ci va, anzi: smania per andarci. Con quali effetti, però?

Un effetto di omaggio. Lo ricevono il politico e l’esperto, il cantante e il cardinale, il professore ed il campione sportivo, il testimone e il «caso umano». Tutti, indistintamente. Tutti si siedono sulle stesse poltroncine, tutti sono incorniciati dalle stesse telecamere. Tutti sono nello stesso spazio: in studio. Così, per quanto ficcanti siano le domande o energico il contraddittorio, tutto si muove dentro lo stesso acquario, e su tutto prevale quell’unica logica di rappresentazione. Un grande antropologo britannico, Tim Ingold, dice che per studiare gli uomini ci vuole osservazione, non oggettivazione. La prima entra dentro le cose e gli uomini e si fa insieme a loro; la seconda li tiene a distanza, li immobilizza ed anzi li raggela. Possiamo fare un passo ulteriore. Seduti nel salotto televisivo, intronizzati nella figura dell’Ospite, non solo gli uomini non vengono osservati, ma vengono soltanto esibiti. Questa esibizione è in sé spudorata, ed è infatti la televisione il regno della più assoluta spudoratezza. Ma allora la domanda è: cosa vediamo davvero di quel mondo di mezzo, che vive in una zona grigia, più o meno nascosta, una zona ambigua, torbida, sfuggente, quando non proviamo ad entrarci dentro, magari con un’inchiesta d’altri tempi, ma lo invitiamo nel salotto televisivo, lo portiamo sotto le luci dei riflettori? Quando ai Casamonica togliamo la musica che loro avevano scelto per il funerale del capofamiglia, e ci mettiamo quella della sigla del programma?

La domanda non suoni retorica. Perché il problema di scoprire che paese l’Italia sia diventata, cosa sono i quartieri delle grande città, chi comanda nei circuiti dell’economia legale e di quella illegale, chi controlla il territorio e con quali mezzi, quali modelli sociali e culturali si impongono, cosa succede nei luoghi reali di vita delle persone esiste. Dentro tutto ciò ci sono pure i Casamonica. Ed esiste pure, aggiungiamolo, la necessità di raccontare le ginestre che sorgono in mezzo al deserto, o i pezzi di paese che cambiano, le cose nuove che si inventano e quelle vecchie che vanno a morire. Ma c’è la voglia di raccontarle davvero queste cose? E come, e da dove la Rai pensa di farlo? Forse tutta la levata di scudi più o meno moralistica di queste ore non vale la più banale richiesta che si può rivolgere al servizio pubblico, di provare a fare, insieme allo spettacolo e alle sue pur legittime esigenze, anche un’altra non piccola opera, che è opera di conoscenza.

 

(Nella foto Bruno Vespa)