Pubblicato il 08/07/2015, 11:33 | Scritto da La Redazione

Fazio: “Faccio ‘Rischiatutto’, ma è la fine della tv generalista” – Minoli: “Ora riformiamo anche i talk show”

Rassegna stampa: La Repubblica, pagina 52, di Silvia Fumarola.

Fazio Rischiatutto

Il conduttore riporta su Rai 3 il programma più famoso degli anni ‘70 che dispensava milioni di lire. “Quarant’anni fa i campioni erano assolute star”. “Rispolvero il quiz di Mike e sfido il pubblico dei tablet”.

La nostalgia non è più quella di un tempo, ma per chi era ragazzino negli anni Settanta, quel grido: «Fiato alle trombe Turchetti!» significava entrare in un mondo fantastico fatto di cuffie, cabine, domande impossibili, concorrenti mostri di bravura, governato da lui Mike Bongiorno, cerimoniere che prometteva milioni di lire. Un’altra vita. L’Italia dal 1970 al 1974 era seduta davanti al Rischiatutto, il programma dei record con la prima valletta, termine misterioso, Sabina Ciuffini, in minigonna malandrina imitata da milioni di spettatrici. Un ragazzo di trent’anni non sa di cosa si parli, a meno che non sia un fan delle Teche, abbia avuto un nonno gran narratore e o studi Storia della televisione, ma Fabio Fazio, con sprezzo del pericolo, la prossima primavera porterà Rischiatutto su Rai 3 nell’era di Wikipedia e delle risposte a portata di clic.

Fazio, l’impresa è ardua.

«Lo faremo con uno che lo guardava (io), uno che lo faceva, Ludovico Peregrini, il signor No, e chi non era nato, i miei autori trentenni. Partendo da questi presupposti si può ricostruire la magia, dal punto di vista di chi ha inventato il quiz, di chi l’ha mitizzato e di quelli che non c’erano, ma ne hanno sentito parlare».

Rispolvererà cabine e cuffie?

«Essendo un prototipo va riproposto com’è, tutte le componenti sono state riutilizzate dai giochi successivi, cabine, buste, elementi che noi dobbiamo esasperare. Stiamo cercando di rifare lo studio con la scenografia originale, il fascino è lo stesso di quando ritrovi una scatola in soffitta. Rischiatutto non invecchia, è più forte di qualunque succedaneo».

Nell’era dai reality e delle risposte a portata di mano, come si ricrea la suspense?

«Rischiatutto ha una componente forte involontaria di reality. Parte dalla stessa ipotesi di partenza dell’Isola dei famosi: giochi a fare il naufrago e devi procurarti il cibo. Per il quiz è la stesso, hai tutto a disposizione, ma devi dimenticare Internet. La prima reazione è che il pubblico da casa giochi contro il concorrente col tablet e veda la risposta, la seconda è che lo spenga e scelga di misurarsi con lui alla pari. A quel punto non conta il nozionismo, ma la passione».

Rifare Mike è impossibile…

«Riproporre Rischiatutto è un sogno e sono felicissimo. Non penso neanche lontanamente di fare una competizione col modello di Mike perché è irraggiungibile, non si può fare un confronto. È la differenza che c’è tra uno che ha scritto il libro e uno che lo legge».

Daniele Bongiorno ha tifato per il progetto.

«La sua complicità è importante, ci saranno sorprese all’interno del gioco per ricordare Mike. Il fatto che Daniela abbia dato l’ok per me ha un valore di riconoscenza e affetto, stiamo lavorando duramente».

L’Italia sognava con i campioni: la mitica signora Longari, il dottor Inardi. Si può creare ancora quel divismo formato tv?

«La scelta dei concorrenti non si può sbagliare, chi vince torna la settimana successiva. Quarant’anni fa i campioni del telequiz erano star. Stiamo parlando di un gioco che faceva 25 milioni di ascolto e anche di più. Era la prima volta che la gente comune aveva accesso alla televisione, uno degli aspetti pop più interessanti di Mike. Oggi quando scaldo il pubblico a Che tempo che fa, chiedo: chi di voi non era mai stato in uno studio televisivo? Si alzano pochissime braccia. Ormai la tv è un luogo comune, quel tipo di sorpresa non ci può più essere. Oggi è giusto dire: “Giochiamo al Rischiatutto“, un po’ come il mio Sanremo del ‘99, quando giocavamo a fare il Festival. II nostro quiz somiglierà più a un gioco di società».

Ci sarà la valletta?

«Ci stiamo pensando, intanto abbiamo riscritto il regolamento. Rischiatutto all’inizio si doveva chiamare “Repentaglio”, ho il dattiloscritto originale, perché Mike faceva la fatidica domanda: “È disponibile a mettere a repentaglio la sua vincita?”. Ma Rischiatutto è più diretto».

Un bilancio sulla stagione televisiva che si è chiusa?

«Positivo. L’esperimento più bello è stato la serata del 25 aprile, uno di quei rari momenti in cui si confondono la parte emotiva e professionale».

I palinsesti Rai e Mediaset sono senza un’idea. Perché?

«Non si rischia. Col digitale terrestre l’offerta è enorme, la tv generalista cinque anni fa aveva un bacino dell’80% adesso del 60, l’anno prossimo sarà al 50. Nel momento in cui Rai e Mediaset annunciano trionfalmente nuovi canali decretano la fine della tv generalista. Chieda a chi ha trent’anni cosa guarda in tv. Risponderà: le serie me le registro, le vedo su YouTube, mi siedo davanti alla tv solo se c’è l’evento. Per i miei figli la tv è un oggetto misterioso, sullo schermo guardano un dvd, i filmini delle vacanze o papà che lavora. Il concetto che ha stupefatto la mia generazione, l’immagine che arriva a tutti nello stesso momento è superato. Oggi bisognerebbe pensare che la concorrenza non è più solo con l’altra rete generalista, ma con l’intero sistema».

La mettono spesso a confronto con Letterman, e non ne esce bene….

«Letterman faceva quello che vuole, nelle interviste era libero. Io vengo analizzato dal primo all’ultimo minuto, se facessi come lui mi direbbero: “Perché gli ha chiesto quello e non quell’altro?”. A Letterman non interessa l’attualità. Provi lei a invitare un politico e a non fargli la domanda sul tema del giorno».

 

Rassegna stampa: Il Sole 24 Ore, pagina 20, di Giovanni Minoli.

Ora riformiamo anche i talk show

Teniamo solo gli ospiti “migliori” e paghiamoli in base all’audience.

Renzi, dopo averne usato e abusato, ha capito il punto: i Talk sono la tomba del confronto delle idee, uccidono la politica, il significato delle parole. E lo Story-telling della Tv, che con le sue regole, ha vinto. Nei Talk, che sono tali solo per un occhio superficiale, in realtà va in scena uno spettacolo sofisticato scritto con una sceneggiatura di ferro. Il conduttore con i suoi autori costruisce il racconto in modo rigoroso e orientato, affida le parti in commedia solo a chi garantisce di interpretarla senza sbavature. I politici, quasi tutti, pur di apparire accettano il ruolo imposto e così si realizza in modo chiaro e semplice lo scambio sottostante di interessi: prodotto a bassissimo costo contro visibilità e riconoscibilità. Il prezzo? La perdita di senso delle parole che non sono più strumento di approfondimento e ragionamento, ma proiettili. Da usare nel modo più violento possibile contro il “Nemico” che non diventa mai “Avversario”, ma resta sempre “Nemico”. Risultato: la morte della politica.

C’è stato un momento di crisi per i Talk e il loro racconto, perché con l’appannarsi di Berlusconi, senza l’antagonista, la drammaturgia non funziona più. Adesso con le prime difficoltà del governo la recita delle pur efficaci frasi della prima ora non funziona più perché la Tv consuma in fretta anche quelle a maggior effetto. La preparazione, la cultura, l’individualità dei protagonisti emerge secondo i casi con tutta la sua forza o pochezza. Inoltre nella drammaturgia del Talk, il “Dominus” è lui: il conduttore. Detta i tempi, dà e toglie la parola, ha sempre delle carte nascoste (filmati, testimonianze, sondaggi ecc.) da giocare al momento opportuno per spiazzare l’ospite “Utile” allo spettacolo, ma “Nemico” politico. Decide e determina, ma soprattutto alla fine di ore e ore di faticose lotte verbali resta solo lui. È l’unico che viene ricordato. Il solo vincitore pronto per la rappresentazione successiva. Lo scambio che tiene in piedi questo meccanismo è questo: io editore ti invito e ti rendo famoso o meglio riconoscibile, tu ospite mi riempi gratuitamente ore e ore di palinsesto, ma se non fai la tua parte in commedia non ti invito più e sparisci.

È proprio questo il timore di tutti gli ospiti: non essere più invitati e sparire. Nella società dell’immagine significa scendere nel rating della notorietà e quindi del potere. Però c’è una variante: dopo un po’ analizzando i dati si sa chi funziona di più e rende economicamente all’editore perché fa più ascolto e più share. Perché non sfruttare questa crescente consapevolezza del mercato? Si può introdurre una regola che modifichi e renda più chiaro il rapporto tra editori e ospiti. Proprio Renzi che parla di Tiki-Taka come tattica calcistica da usare come risposta alla ferrea narrazione del Talk suggerisce più o meno consapevolmente di sviluppare il parallelo con il calcio. Così allora, come i calciatori sono divisi in fasce in riferimento al loro valore e alla loro capacità, potrebbero esserlo anche gli ospiti dei Talk in funzione dei risultati che producono (l’auditel che misura gli ascolti minuto per minuto aiuta a definirli). I partiti che, incasserebbero il prezzo della prestazione, avrebbero interesse ad allenare e selezionare i migliori da inviare come ospiti. Gli editori dovendo pagare gli ospiti come qualunque star dello show-business sarebbero molto più attenti alla qualità e al rendimento della prestazione dell’ospite in questione. Si innescherebbe così un circuito virtuoso che oltre a favorire in modo trasparente una quota del finanziamento dei partiti, premierebbe gli ospiti più efficaci e preparati rendendoli anche più forti nei loro rispettivi partiti, perché capaci e di successo non solo perché “belli” “giovani” o “pappagalli”.

Renzi ha ragione, se lo Story-telling della Tv ha vinto, bisogna riconquistare il valore della politica con una consapevolezza in più. Non solo prenderne atto ma reagire. Ovviamente chi vuole giocare fin d’ora un altro campionato può accettare di diventare leader rispondendo alle domande nei Faccia a Faccia che sono e restano la forma migliore di comunicazione per la conquista della leadership. È solo una provocazione. Ne discutiamo?

 

(Nella foto Fabio Fazio)