Pubblicato il 04/07/2015, 12:15 | Scritto da La Redazione
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Antonello Giacomelli, Sottosegretario alla Comunicazioni: «Cultura e innovazione. Ecco il servizio pubblico»

 

Rassegna Stampa: Corriere della Sera, pagina 26, di Antonello Giacomelli

 

Cultura e innovazione

Ecco il servizio pubblico

 

Caro direttore, il servizio pubblico radio-televisivo ha concluso il suo ciclo storico e non ha più senso di esistere. La provocazione lanciata da Aldo Grasso sul Corriere della Sera di lunedì 29 merita di essere discussa seriamente e pubblicamente, anche perché sul senso del public service broadcasting (il contributo più originale che l’Europa occidentale ha saputo dare alla storia della televisione) è aperta una riflessione in tutta Europa, a cominciare dalla Gran Bretagna. Riconosco che la suggestione di Grasso è tentatrice: dove sta la differenza oggi tra tv commerciale e tv di servizio pubblico? I generi televisivi sono più o meno gli stessi (reality, talent, fiction, talk-show, cartoni) e i palinsesti sono spesso organizzati specularmente. E non basta dire che la funzione del servizio pubblico è quella di rispettare il pluralismo, dare spazio a minoranze linguistiche e religiose o a messaggi di utilità sociale. Siamo entrati in un’epoca nella quale il servizio pubblico ha bisogno di trovare una nuova legittimazione. Certamente non è pensabile riproporre il vecchio modello pedagogico-paternalistico che ha fatto la storia della televisione pubblica nel nostro Paese ma che ora apparirebbe del tutto fuori sincrono rispetto al contesto cambiato. Il punto costitutivo della natura di servizio pubblico è dato oggi dalla capacità di dare ai cittadini gli strumenti di approfondimento e comprensione (che poi ciascuno autonomamente relaziona al proprio schema di valori) delle dinamiche complesse che attraversano il nostro tempo. La quantità di informazioni, la molteplicità dei mezzi, la diversità di linguaggi espressivi, la velocità costituiscono una grande ricchezza e nello stesso tempo rischiano di sommergerci, con un indistinto e frenetico flusso che annulla lo spazio di riflessione e giudizio a beneficio di una ossessiva ricerca di novità. E, d’altra parte, la dimensione globale e interdipendente del mondo di oggi, lo spostamento sostanziale dei poteri moltiplicano, rispetto a ieri, gli ambiti, i soggetti, i temi, che, con le loro azioni e le loro scelte determinano, in modo spesso molto più significativo dei soggetti domestici tradizionali, le condizioni di vita, gli orientamenti culturali, delle comunità nazionali e dei singoli. Questa, per me, è la cifra qualificante, ambiziosa e difficile del servizio pubblico oggi: essere in grado di offrire a chi lo voglia la possibilità di essere cittadino più consapevole; non categoria, non somma di dati ma persona consapevole, dunque più libera e più padrona delle proprie scelte. Una questione che, peraltro, non interroga solo il servizio pubblico ma complessivamente il mondo dell’informazione. Alla Rai chiediamo dunque un cambiamento profondo di cui sono stati fatti i primi passi: si è messa in moto la riorganizzazione delle news nella direzione della struttura unica, si comincia a vedere una presenza non episodica anche se ancora insufficiente sulla Rete, si è valorizzata e resa dinamica Raiway. Ma non basta. Il nuovo servizio pubblico non sarà tale se non saprà misurarsi su tre dimensioni che gli appartengono e che ne marcherebbero la distanza rispetto alla tv commerciale: internazionalizzazione, cultura, innovazione. Serve una Rai proiettata all’estero, che parli dell’Italia nel mondo e quindi che non parli solo italiano. Serve una Rai che traini l’industria audiovisiva nazionale, rafforzando la sua presenza sui mercati internazionali, favorendo la crescita della produzione indipendente e promuovendo la cultura italiana e il made in Italy. Serve una Rai che completi la digitalizzazione dei suoi archivi da mettere a disposizione su tutte le piattaforme, valorizzi il passato audiovisivo come memoria collettiva e costituisca library di prodotti specifici per scuole e università. Serve una Rai che faccia innovazione, cioè sperimenti nuovi linguaggi, nuovi formati, nuove applicazioni, che esplori la sfida della nuova televisione non come un destino ma come un’opportunità.