Pubblicato il 15/11/2014, 15:00 | Scritto da Gabriele Gambini

Lavorare in tv – Cristiana Mastropietro di Pesci Combattenti

Lavorare in tv – Cristiana Mastropietro di Pesci Combattenti
Nuovo incontro con gli addetti ai lavori che ogni giorno fanno la televisione italiana. Stavolta tocca a Cristiana Mastropietro, tra i soci fondatori della casa di produzione "Pesci Combattenti", che annovera tra i suoi progetti dei format con Chef Rubio, "Life" con Vincenzo Venuto e "Il pranzo di Mosè", con Simonetta Agnello Hornby.

Cristiana Mastropietro: “Le nostre produzioni pensano a un linguaggio da cucire addosso a un protagonista”

Seconda puntata del nostro ciclo di interviste agli addetti ai lavori, coloro che ogni giorno fanno la televisione. Questa settimana scopriamo come funziona una piccola casa di produzione tv. Abbiamo incontrato Cristiana Mastropietro di Pesci Combattenti.

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Pesci Combattenti. Già dal nome ittico-belluino, la società di produzione tutta italiana con sede a Roma punta su originalità e freschezza per confezionare format che tentino, con inesorabilità calibrata, di rivoluzionare il linguaggio televisivo. Ci sono loro dietro alla costruzione del fenomeno Chef Rubio di Unti e Bisunti. Ma non solo. Anche in Life – Uomo e Natura, su Rete 4 con Vincenzo Venuto, c’è il loro zampino. Così come ne Il pranzo di Mosè, novità di Real Time, condotto da Simonetta Agnello Hornby. .
Domanda obbligatoria: da dove nasce il nome della vostra società?
«Ce l’hanno chiesto in tanti, soprattutto notai e direttori di banca, dieci anni fa, quando siamo nati. L’idea di base era quella di utilizzare un nome che si affrancasse dai soliti inglesismi tipo “Pinco Pallino Production”. Un giorno Giulio Testa, uno dei soci, ha montato un documentario che aveva quel titolo e mio fratello ha pensato di proporlo come nome per l’azienda».
Ha funzionato da subito?
«Si è rivelato un tratto distintivo. Anche se, specie nei primi tempi, ci telefonavano acquari e società che avevano a che fare con la fauna ittica».
In quanti siete, tra i fondatori della società?
«Siamo in tre. Ci sono io, c’è mio fratello Riccardo e Giulio Testa. Ognuno di noi gestisce una macroarea dell’azienda. Dei tre, io sono la “televisiva pura”, nel senso che ho un background lavorativo da quel settore. Abbiamo iniziato come società di post produzione per corporate e documentari. Ogni nostra produzione è confezionata senza outsourcing. Curiamo tutta la filiera dei nostri prodotti, dalla nascita alla post produzione».
Quante persone collaborano con voi?
«Tenendo presenti le oscillazioni di collaboratori, variabili a seconda della produzione che andiamo a curare, con noi lavorano dalle 12 alle 25 persone, escluse le troupe che si occupano dei girati».
L’età media dei vostri collaboratori?
«Dai 30 ai 35 anni. Non c’è preclusione anagrafica. Ma freschezza, curiosità e voglia di mettersi in gioco, sono fondamentali. Chi lavora per una società di produzione televisiva non punta soltanto a trovare un lavoro, ma a costruirsi un percorso di carriera».
Quale pensa sia il tratto distintivo dei vostri lavori per la tv?
«La cura artigianale del prodotto, dall’inizio alla fine. Il controllarne tutti gli aspetti, dalla scrittura di un format alla post produzione, passando per grafica, suoni e caratteristiche collaterali. Identifichiamo un contenuto e cerchiamo di cucirgli addosso un metodo visuale e personale di raccontarlo. Concentrandoci sulle fondamenta: scrittura, regia e post produzione».
Un esempio emblematico è il successo di Unti e Bisunti, che ha reso popolare il termine “street food” e lanciato la figura di Chef Rubio come personaggio trendy di questi anni televisivi. Raccontiamo la genesi del progetto. Come è nato e come è approdato a Discovery?
«Unti e Bisunti è un caso particolare, nato e pensato sull’onda del successo dei “cooking show” nei formati tv. Il mio incontro con Gabriele (Rubini, aka Chef Rubio, nda) è stato casuale: mi trovavo a un convegno di studiosi di nutrizione, lui era presente assieme ad altri chef incaricati di realizzare nella pratica alcuni spunti di ricette descritti nella conferenza. Mi ha colpito per la sua fisicità e per la sua forte capacità comunicativa. In quel periodo, stavamo ragionando sulla possibilità di realizzare un format di cucina che si inserisse nel filone televisivo corrente ma, nel contempo, che se ne discostasse, ridefinendone alcune caratteristiche. Volevamo affrontare l’argomento in modo nuovo, politicamente scorretto, con uno chef che si sporcasse le mani con il cibo e non lo trattasse in modo distaccato. Abbiamo contattato Discovery, sapendo che non avevano nel loro palinsesto un programma di cucina italiano. L’idea dello street food, in contrasto quasi ideologico con quella dell’impiattamento da ristorante stellato, ci sembrava perfetta per il target del canale. Ci hanno commissionato una puntata zero».
Si può dire che Unti e Bisunti nasca in opposizione a Masterchef?
«In realtà, no. Credo che abbia anche punti in comune con Masterchef. Entrambi toccano le corde emotive del pubblico nel rapportarsi al cibo. Ma lo fanno in contesti diversi».
Parliamo della realizzazione della puntata zero.
«Abbiamo scelto Napoli come luogo perché ci sembrava rappresentativo di una certa cultura popolare applicata allo street food. Lo sforzo autorale maggiore è avvenuto con il sopralluogo per i girati, indispensabile per la scelta dei piatti da raccontare e dei personaggi da coinvolgere, che costituiscono la linea narrativa».
L’adrenalina del programma è data dalla sfida tra Rubio e i personaggi che gli girano intorno. Seguono tutti un copione prestabilito?
«No. Dal punto di vista autorale, Unti e Bisunti non si avvale di una costruzione dialogica precisa. Come detto prima, cerchiamo di cucire addosso un linguaggio televisivo al protagonista del format: in questo caso, ci siamo preoccupati di rendere televisiva l’interazione tra Rubio e gli alfieri dello street food locale. Gli autori forniscono un canovaccio, ma c’è libertà di azione, sulla quale costruiamo il girato, il montato, gli aspetti grafici e i suoni».
Rubio dunque non è un personaggio costruito a tavolino.
«Ci siamo limitati ad amplificare e adattare i suoi punti di forza. Facendo prove assieme a lui per far emergere i tratti distintivi che già gli appartengono».
Ci sarà una terza stagione di Unti e Bisunti?
«Stiamo lavorando per identificare scenari inediti».
Da che cosa attingete per elaborare idee per nuovi format?
«Osserviamo le cose del mondo, il web, le tendenze, prima ancora della televisione. Ci piace focalizzarci su ambienti particolari e curiosi e sviluppare storie inedite. Il format è come un abito: deve essere cucito su qualcuno che lo sappia indossare. Ricordando che in Italia c’è una cultura territoriale fortissima, da non sottovalutare, quando si pensa a un progetto o all’adattamento di un’idea internazionale».
Un occhio agli ascolti lo date?
«Sono un riferimento. Così come lo è la rete con cui andiamo a collaborare. Ma lo share non è una garanzia della riuscita di un prodotto. A parità di ascolto, si impone il progetto con fattura più qualitativa e con un contenuto particolarmente identificativo».
Lei guarda la tv? Se sì, che cosa?
«Mi piacciono molto le serie tv made in USA. Seguo i factual, stanno dando frutti generosi, penso al successo di Il nostro piccolo grande amore. Non disdegno l’approfondimento giornalistico: oggi la narrazione della politica è stata fagocitata da Renzi e la formula risulta inflazionata, ma quando si andrà a votare, i talk torneranno al centro dell’attenzione».
C’è un prodotto che vi rende particolarmente orgogliosi? Viceversa, uno che rifareste in modo diverso?
«Ogni progetto ci ha soddisfatti perché ci abbiamo messo noi stessi. Unti e Bisunti ci rende particolarmente fieri perché è il programma che ha fatto capire al pubblico il nostro linguaggio. Un altro format di cui siamo orgogliosi è Il pranzo di Mosè, su Real Time».
Se il format è un vestito da cucire addosso a un protagonista, il broadcaster che cos’è?
«Il Broadcaster è la casa in cui si andrà ad abitare indossando quel vestito. Ogni produzione, una volta ideata, viene pensata e scritta assieme al broadcaster e calibrata con i direttori di rete. La mediazione e il rapporto costruttivo con la rete tv sono fondamentali. Ogni canale ha le sue peculiarità: la Rai è come un palazzo d’epoca, Mediaset è una realtà commerciale con maggior immediatezza, LA7 nasce come ambiente raffinato ed elegante, Discovery è trendy…».
Sono un giovane che vuole lavorare con voi. Che faccio?
«Riceviamo tantissimi CV. Li leggiamo tutti. Ciascuno di noi tre per quanto concerne il suo settore di competenza. Per quanto riguarda me, trovo fondamentali tre qualità: la conoscenza di una lingua straniera, una curiosità inesausta sulla realtà televisiva, voglia di leggere e aggiornarsi costantemente. Fare l’autore tv non è semplice: è come possedere una cornice da riempire con argomenti diversi e complementari. Non ci si improvvisa. La formazione di un autore, così come quella di un regista, non finisce mai».
Coltiva qualche desiderio di progetti che vuole vedere realizzati in tv?
«Da bambina volevo fare l’astronoma. Penso che in Italia manchi un tasso adeguato di alfabetizzazione scientifica. Mi piacerebbe pensare a un format originale capace di innovare il linguaggio in quel campo. Sul piano dell’approfondimento documentaristico, curiamo la realizzazione di Life, con Vincenzo Venuto, che è una sorta di San Francesco 2.0. (ride, nda)».
Una curiosità: siete tre soci. Andate sempre d’accordo, nelle decisioni da prendere?
«Non siamo sempre d’accordo. Anzi. Ci instilliamo dubbi vicendevolmente. Ma abbiamo una comune visione del progetto».

 

Gabriele Gambini
(Nella foto Cristiana Mastropietro)