Pubblicato il 26/09/2014, 12:32 | Scritto da La Redazione

RASSEGNA STAMPA – ANDREA SCROSATI: “STANDO NELL’OMBRA RIFACCIO LA TV”

Parla poco, non appare mai. Ma ama rischio e creatività. Chi è il vice presidente di Sky Italia, l’uomo che ha voluto “Gomorra” e “House of Cards”.meta name=”news_keywords” content=”l’espresso, denise pardo, andrea scrosati, sky, gomorra

Rassegna stampa: L’Espresso, pagina 50, di Denise Pardo.

Stando nell’ombra rifaccio la tv

Parla poco, non appare mai. Ma ama rischio e creatività. Chi è Andrea Scrosati, l’uomo che ha voluto “Gomorra” e “House of Cards”.

Una delle sue caratteristiche è l’essere un uomo ombra. E questo ha un valore speciale visto che si muove nel mondo della comunicazione globale. Dopo l’intervista «estorta» dice con una smorfia mille anni fa dal suo compagno di scuola Luca Telese (ex tessera Pci come lui quando erano in fasce, sezione Trevi – Campo Marzio) Andrea Scrosati non si è più esposto alla cronaca di un colloquio. Il gran potere dell’ombra ripaga e da vice presidente Sky Italia ne ha uno che è un concentrato di deleghe, Cinema, Spettacolo e Canali partner, da qualche mese anche le News: quindi una cifra da maneggiare da gran mogol che la policy aziendale proibisce di quantificare. L’acquisto di X Factor è stata una delle prime operazioni di Scrosati: «Siamo stati l’unica pay tv al mondo a comprarlo a un costo da far paura». Ha intrapreso una battaglia lunghissima per avere House of Cards, serie idolatrata a Palazzo Chigi, e ora c’è in ballo una versione italiana: «Ci sta già lavorando Giancarlo De Cataldo». Tra qualche mese, andrà in onda 1992 un’idea di Stefano Accorsi sugli anni di Tangentopoli e già solo il trailer è un pugno nello stomaco della politica. WalterVeltroni racconta che appena accennò al progetto di ricordare in un film Enrico Berlinguer «Andrea non mi lasciò finire la frase, scandì un “Parti”». E tutti a dire: Sky vuole fare servizio pubblico. Si racconta che l’uomo della svolta della linea editoriale sia lui, grande sintonia con il tycoon Rupert e la sua famiglia, James Murdoch, il presidente («ho totale autonomia ma faccio tutto in accordo con il mio azionista e con Andrea Zappia il mio ad»), e profonda conoscenza del mondo dei media e dei suoi poteri. Seduto nel suo ufficio in maniche di camicia, pantaloni e scarpe da uomo d’affari, due passi e c’è il Quirinale, e poi giù la Roma del Palazzo, Scrosati rifiuta l’interpretazione di Sky che fa il verso alla Rai. Il cambio di passo della sat tv, spiega, è frutto di un ragionamento lucido. «Dovevamo identificare un’area di specificità e abbiamo scelto quella della realtà, forse la più difficile da realizzare bene, è fiction pura ma innestata su elementi di verità. La pay, al di là del valore di socialità del filone sportivo e di talent come X Factor, si basa sull’individualità: la vedi quando, dove e come vuoi. Per questo le serie vanno concepite come un libro». Matteo Renzi, premier sfiorato al tempo dei “Faccia a faccia” di Sky e mai più («Filippo Sensi, il suo portavoce? Mai conosciuto neppure lui, faccio male?») ha lanciato un assist formidabile indicando le fiction Usa come mezzi per la formazione di partito. «Ha ragione. La costruzione del Dna di un popolo si edifica da sempre attraverso la cultura popolare. Oggi il racconto per immagini è parte molto alta di questo, più del cinema che, ha notato Bernardo Bertolucci stregato da True detective, in 80 minuti non può arrivare al livello di approfondimento di scrittura di una serie tv».

Scrosati ha poco più di quarant’anni, l’inglese come prima lingua grazie a una madre producer di Bbc cresciuta in Sudafrica, ma lavora dall’età di 19. Ha cominciato con Leoluca Orlando, conosciuto a un’assemblea sulla mafia del liceo Visconti (compagni di scuola anche Giulio Napolitano e Vittorio Zincone), militando nella Rete dove diventa portavoce del leader. Poi lascia la politica, passa alla Network, organizzatrice di grandi eventi come il concerto del Primo maggio, presentato da Gianni Minà, ex candidato della Rete, giusto il tempo di costruire il “suo” network e aprire Mn. La sua società corre veloce, come lui che è velocità e bravura dicono alcuni, un uomo con i contatti giusti, per esempio con l’allora Pds-Ds, Vincenzo Visco in primis, ricordano altri, verosimilmente è un misto di tutto questo insieme a una micidiale capacità di cucire e integrare la sua “rete”, link chiama link, è l’arte della navigazione. Si occupa di Adriano Celentano, e poi sarà anche Fiorello, un bel colpaccio grazie a Bibi Ballandi, re degli appalti tv, democristiano mai pentito, sempre presente alle feste dell’Unità, e a un incontro con Claudia Mori in una cena di amici comuni. Lo assolda anche Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas (ancora Minà?) e persino il Dalai Lama, più volte, grazie alla segnalazione un’altra di una gran dama palermitana conosciuta ai tempi di Orlando, munifica sostenitrice dei monaci tibetani, a Massimo Stordi, ancora oggi capo della comunità buddista in Italia. Link chiama link. A Montecitorio ricordano ancora quando Scrosati giurava sulla potenza d’Internet e dei network. Lo guardavano scettici, erano i tempi in cui il cellulare era strumento da studio ovale. È un innovatore, dicono a Sky. Guai a segnalargli un dogma, è la volta che rimugina per trovare il modo di trasformare un blocco in uno slancio: «C’è un assioma nel nostro mondo: un film prima va in sala, tre mesi e diventa dvd, poi pay per view e dopo pay tv. Noi abbiamo scardinato l’iter e portato la serie di “Gomorra” al cinema spalmato su un’intera settimana. In America gli esercenti non l’avrebbero mai permesso. L’Italia può dimostrare che c’è opportunità di provare cose nuove e generare ricchezza». Parla veloce senza incespicare («Non dormo, sono sempre agitato»), gli occhi hanno un freddo taglio asiatico, è un uomo molto spiccio, orgoglioso della sua rete a Sky (ci tiene a recitare i nomi Hartman, Borella, Tebaldi, D’Errico, Amedei…) che ha avuto una sequenza d’incontri così particolare da fargli aleggiare un’aria di mistero. Qualcuno dice «è legato agli americani». Ride: «Americani con la kappa? Ho vissuto negli Usa, mi piace starci e spero di tornarci. Lavoro in un’azienda americana. La verità è che se non fai parte di un clan, politica, salotti romani, massoneria, bocconiani, generi l’insicurezza». Anche la maldicenza. Certo, il clan è il contrario della rete.

Quest’estate il suo nome è girato come futuro direttore generale Rai: «Sto bene dove sto». Non commenta la riforma Rai in atto: «Penso si debba avere rispetto per il lavoro fatto da altri. Detesto l’autoreferenzialità e l’arroganza, trappole micidiali del nostro mondo. Ogni tanto torno a casa un po’ su di giri ma prendo subito due schiaffoni e vengo rimesso in riga. Detto questo, la Rai ha un valore molto superiore al suo fatturato. In un mercato di contenuti giocherà una parte fondamentale e diventerà sempre di più partner di altri soggetti». Lontano da Sky infuria la guerra dei talk show, genere con cui non si è mai misurata. Per convenienza diplomatica? In un Paese straniero e complicato? «Ma no, l’all news è incompatibile con i talk show. Si romperebbe il motivo per cui esiste. Possiamo avere altro come l’accordo con Vice, la web tv, lavorando su temi diversi. Stiamo introducendo il principio che il tg è un canale e può ospitare prodotti esterni, reportage da dieci minuti, poi tornare al rullo e non spezzare un linguaggio». I talk convengono perché costano poco, spiega, i compensi vanno divisi su 40 puntate, prodotti come Gomorra arrivano a toccare i 17 milioni, una serie Usa 150 mila all’ora. Del debutto di Ballarò e Dimartedì l’ha colpito un piccolo servizio del programma di Floris che rivelava come i cassonetti gialli raccogli vestiti, destinati a Caritas o simili nell’immaginario di tutti, siano di un’azienda che disinfetta gli abiti per venderli nei negozi di vintage. «In quest’orgia di talk è una notizia più rilevante di molti dei dibattitti degli ospiti. Giorni fa, dopo un pezzo sui polli imbottiti di antibiotici le persone chiedevano: “Lo faccio mangiare o no a mio figlio?”. Non percepisco questo tipo di reazione all’ennesimo servizio sulla riforma elettorale». Nel 2003 Sky Italia invita Mn alla gara per la comunicazione della tv satellitare, in ballo diverse multinazionali. «Alla fine della mia presentazione di due ore in inglese l’allora ad Tom Mockridge non dice una parola. Così porto il mio team a mangiare una pizza, era la consolazione per l’evidente sconfitta. Tre giorni dopo mi chiama Mockridge. E nel suo incomprensibile inglese da neozelandese mi annuncia che ce l’ho fatta. Nel 2007 mi chiede: “Perché non entri nel nostro gruppo?”. Per un po’ ho resistito. Poi mi ha mandato a New York a un colloquio con Rupert, un uomo con un livello di carisma micidiale, dall’approccio anglosassone informale, diretto… E così».

Difficile resistere alla fascinazione dell'”incarnazione dell’american dream” lontano anni luce, nel bene e nel male l’editore rivale Leo Kirch definì l’australiano Murdoch “lo squalo dai denti lunghi” dai condizionamenti e dal barocchismo delle nostre tv. «Ho l’autonomia delle decisioni in velocità. È un modello basato sullo stimolo a essere creativo e sulla cultura del rischio. Devi fare tutto al massimo ma l’errore ci può stare. Una rarità in un mondo conservatore in perenne attesa che qualcun altro rischi per primo». Le regole danno certezza. «L’Italia spesso ne paga l’assenza. Per questo ha un potere più inquietante di quello anglosassone». Una recente intervista al senatore Antonio Razzi che confermava il pagamento dell’albergo a Pyongyang da parte del governo coreano a lui e agli altri politici al seguito l’hanno scandalizzato: «È un atto gravissimo e non è successo nulla. La carenza di etica è il segno di degrado imperdonabile». Ha ragione da vendere. Purtroppo succede ovunque, anche nell’impero di Murdoch in giro per il mondo dove non tutti sono angioletti senza macchia né paura. Nel 1999 Gianni Pilo, allora sondaggista-principe di Silvio Berlusconi, gli offre di occuparsi della campagna elettorale di Giorgio Guazzaloca deciso a conquistare il Comune di Bologna. Il sogno di un pazzo, pensavano tutti. Scrosati ricorda che fu il segretario bolognese dei Ds, dilaniati da divisioni interne, a infondergli la percezione di una possibile vittoria: «”Avete un serio problema” gli dissi. Rispose: “Voi avete i sondaggi. Noi le sezioni”. Fu quella frase a farmi capire che valeva la pena di provare. È sempre l’arroganza e l’autoreferenzialità a uccidere». Ora, lontano dalla politica, c’è una forza, dice lui, che va al di là dell’orticello di casa. La fiction italiana è un filone dalla potenzialità esplosiva. Dagli Usa arrivano 186 serie tv l’anno, ma l’eccesso di produzione sta andando a scapito di ricavi e qualità. «A causa di dinamiche immaginabili del duopolio tv, abbiamo vent’anni di storie chiuse nel cassetto e ora il livello di eccellenza di produttori e scrittori non ha nulla da invidiare a quello Usa. “Gomorra” sarà la prima fiction doppiata negli Stati Uniti puntando a una visione di massa. Non era mai successo nemmeno con i film italiani da Oscar, considerati però prodotti da nicchia. A Cinecittà stiamo girando Diabolik e Dante Ferretti ha recuperato caterve di scenografie non utilizzate per costruire Clerville. Questo vuol dire lavoro assicurato per un anno. Nel nostro Paese abbiamo giacimenti di creatività, ora anche risorse economiche che arrivano dalla pay. L’occasione è unica e il modello industriale si basa sulla capacità intellettuale. Non inquina, è esportabile e duraturo». La rete di Andrea sembra aver funzionato bene.

 

 

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