Pubblicato il 27/07/2012, 10:12 | Scritto da La Redazione

IN RAI SERVE UNA VERA RIVOLUZIONE

IN RAI SERVE UNA VERA RIVOLUZIONE
Un importante uomo politico, sotto pseudonimo, scrive sulle pagine del “Mondo” la sua ricetta per cambiare la tv di Stato. Chi sarà? Il Mondo, pagina 9, di Fabrizio Salina (dietro allo pseudonimo di Fabrizio Salina si nasconde un importante uomo politico) Mandate in onda la rivoluzione La nuova Rai ha bisogno di cambiare in fretta. […]

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Un importante uomo politico, sotto pseudonimo, scrive sulle pagine del “Mondo” la sua ricetta per cambiare la tv di Stato. Chi sarà?

Il Mondo, pagina 9, di Fabrizio Salina (dietro allo pseudonimo di Fabrizio Salina si nasconde un importante uomo politico)

Mandate in onda la rivoluzione

La nuova Rai ha bisogno di cambiare in fretta. E di ripensare il canone.

La Rai di Tarantola e Gubitosi si è messa in movimento con sobrietà «montiana». Nessun proclama, nessuna controversia. Si cambierà, si risparmierà, si prenderanno le dovute distanze dal passato. Ma senza dare più di tanto l’idea di una rottura troppo dirompente. Mosse e dichiarazioni dei primi giorni evitano con cura di dare fuoco alle polveri. Il nuovo management vuole rendersi autonomo dalla politica, ma intende farlo con il garbo (e magari anche con la furbizia) che si addice alla difficoltà dell’impresa. Verrebbe da dire che la direzione è quella giusta, e la velocità quella sbagliata. La Rai, infatti, deve liberarsi dalle due ossessioni che l’hanno tenuta prigioniera in tutti questi anni: la politica e l’audience. Deve imparare a guardare ai partiti senza quella deferenza un po’ stucchevole, che una volta faceva parlare dell’editore di riferimento per ciascuna rete e testata. E deve contendere a Mediaset e Sky i favori del pubblico senza sgomitare più di tanto, e soprattutto senza rincorrere la concorrenza verso il basso. Su questi punti il nuovo management ostenta di avere le idee chiare, e soprattutto le idee corrette. Non promette rivoluzioni, ma assicura buone riforme.

Il punto è che forse ci sarebbe invece bisogno proprio di una rivoluzione, o di qualcosa che le somigli. Anche senza inseguire il miraggio di una privatizzazione cotta e mangiata (per la quale servirebbe una legge), una nuova Rai dovrebbe passare attraverso la cruna d’ago di due, tre cambiamenti più strutturali. Primo: occorre separare nettamente le attività finanziate dal canone e quelle finanziate dalla pubblicità. Le prime presidiano il vecchio servizio pubblico, o quel poco che ancora ne resta. Le seconde esprimono la vocazione al mercato. La confusione tra le due è l’origine dello scadimento dell’azienda. Secondo: occorre affiancare all’Auditel, che misura quasi ossessivamente gli ascolti minuto per minuto, una rilevazione che riguardi la qualità e il gradimento dei prodotti televisivi. Un tempo un simile indice era tenuto in gran conto, e il fatto che poi se ne siano perse le tracce ha qualcosa a che vedere con lo scontento di fasce sempre più ampie di pubblico. Terzo: occorre che l’azienda di viale Mazzini, come (quasi) tutte le imprese del mondo abbia anch’essa un capo, un chief executive officer per dirla con il gergo dei manager. Tradotto, un amministratore delegato, e non quella simpatica e confusa bolgia che vede insieme un consiglio pletorico, un presidente e un direttore generale, tutti accomunati dall’incertezza dei rispettivi poteri e competenze.

Ora è abbastanza chiaro che il disegno aziendale dei nuovi vertici punta in quella direzione. Il loro rischio è di arrivarci troppo tardi. In questi anni infatti la crisi del sistema politico ha minato la solidità delle basi su cui poggiava il cavallo di viale Mazzini. Il malumore del Paese verso il ceto politico, del resto, non poteva che irradiarsi prima o poi anche verso i suoi emissari radiotelevisivi. Può essere ingenuo aspettarsi da Tarantola e Gubitosi improbabili gesti di ribellione. Ma sarebbe almeno altrettanto ingenuo da parte loro contare a lungo andare sull’indulgenza del pubblico in cambio di una loro eccessiva indulgenza verso una politica apertamente in crisi. Anche per questo si consiglia un passo più deciso e spedito. Nel frattempo, sarebbe forse il caso di aprire una laica e razionale discussione pubblica sul canone. Un tempo era un tributo che gli italiani pagavano (quasi) di buon grado. Oggi pagano costosi abbonamenti privati, e quelli che non guardano i canali della Rai si chiedono con qualche ragione perché debbano continuare a finanziare programmi che magari non seguono. Sentimenti ancora minoritari, si dirà. Ma progressivamente più diffusi e difficili da contrastare. Mentre il nuovo management doverosamente si prodiga per contrastare l’evasione da canone, non sarebbe scandaloso se le autorità politiche cominciassero a chiedersi se il versamento di quel canone sia ancora così doveroso.