Pubblicato il 27/04/2012, 15:33 | Scritto da La Redazione

GIANLUIGI PARAGONE: «DA ME NESSUN POLITICO È AL SICURO»

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“L’ultima parola”, il talk show di Rai Due in onda al venerdì in seconda serata, sta ottendendo un buon riscontro di share e il giornalista-conduttore ha confidato a TVZOOM il proprio punto di vista sul programma e sul panorama politico e televisivo italiano.

Su Rai Due, in seconda serata al venerdì, L’Ultima parola ce l’ha la gente. Il conduttore, Gianluigi Paragone, sostiene di non volere filtri, tanto meno paletti, di essere solo il mediatore tra gli ospiti (politici, imprenditori, rappresentanti delle istituzioni) e le categorie sociali – si chiamano anche “il territorio”- pronte a intervenire in studio. Assieme a studenti, blogger, opinionisti. «Riscoprendo il modo di fare cronaca politica, mettendo i rappresentanti dei partiti a diretto confronto con i cittadini», sottolinea Paragone, considerato da sempre uno degli alfieri del giornalismo di area centrodestra, oggi niente affatto spaventato a muovere critiche mirate ai politici, a prescindere dalla casacca di appartenenza. Gli ascolti lo premiano: lo share del programma è di tutto rispetto, con picchi fino al 15%. Lui conduce, propone, dispone, arriva anche a suonare la chitarra, novello menestrello con propositi Gaberiani. 

Paragone, quali saranno le sorprese della puntata di questa sera?
«Al centro del confronto ci sarà, come al solito, la situazione corrente: la crisi, il mondo dei lavoratori e degli imprenditori e le loro storie commentate dai politici. Questa sera gli ospiti saranno Giorgia Meloni, Galletti, Airaudo, Civati, Cobianchi. Oltre ai collegamenti esterni». 
Quando penso al suo programma, penso alla cronaca che interviene a gamba tesa nella politica, cercando di raccontare con gli occhi degli spettatori più che dei politici, in questo caso chiamati solo a fornire risposte…
«Penso a un recente tweet di Massimo Bernardini: ha riconosciuto come noi de L’ultima parola siamo stati i primi a raccontare la crisi delle imprese del Nord, la questione settentrionale a confronto con quella meridionale. Ma anche il territorio vero e proprio delle regioni del Nord, dove il denominatore comune è la triade famiglia-capannone-campanile». 
Un tempo, del resto, si diceva che Rai due dovesse diventare la voce delle identità territoriali in casa Rai, in una sorta di rappresentazione federalista della struttura di viale Mazzini. La questione è ancora valida?
«È valida in teoria, in pratica in Rai non è cambiato granché. La visione di v.le Mazzini è romanocentrica, sono in pochi a capire come la scelta delle parole e dei modi sia fondamentale per raccontare la società. Santoro era stato l’unico ad aver intuito tempestivamente la crisi delle imprese, cercando di portare in trasmissione i loro rappresentanti. Forse non è riuscito a comprenderli appieno nelle loro istanze, ma ha il merito di averli portati in prima serata».
Santoro però se ne è andato sbattendo la porta…
«Non solo. La Rai si è fatta anche portare via il nome “Servizio Pubblico”. Orfana di marchio, se vuole rilanciarsi davvero, è bene che porti avanti la sostanza. Dar voce al territorio, metterlo a confronto con la politica, quello è servizio pubblico».
Soprattutto in tempi in cui il vento dell’antipolitica rischia di spazzar via tutto.
«Io non la chiamerei anti-politica. La gente vuole partecipare, è molto attenta ai dibattiti, non ha il rifiuto aprioristico di tutto ciò che è politica. Semplicemente vuole un altro tipo di politica, un modo diverso di intendere il governare rispetto a quanto visto fino a oggi. Io la chiamerei “altra politica”».
La rete, i nuovi sistemi di comunicazione, consentono una maggior vicinanza dei cittadini ai temi trattati?
«Certo. Per questo noi invitiamo spesso blogger che si assumono la totale responsabilità di ciò che dicono e si confrontano con i politici in studio. Senza filtri».
Che cosa non funziona in Rai? Ha una sua visione di nuova forma di governance?
«Sono troppo giovane per suggerire nuove ricette. E poi, sono come San Tommaso. Finché non percepisco volontà di cambiamento, seguita da fatti, non credo. Tra le cose che non mi piacciono, penso al concedere troppi grandi appalti a società esterne. Si penalizzano i lavoratori interni Rai, che sono un patrimonio dell’azienda. E si valorizza poco il prodotto finale».
Meccanismi come l’auditel hanno ancora senso in un mercato così ampliato, con l’avvento del digitale e di internet?
«Per il momento l’auditel ha ancora senso come metro di confronto. Poi, certo, bisogna fare i conti con le nuove tecnologie. Per fare un nome, in Rai, Leone è uno dei pochi ad aver capito lo spirito della rete e di Twitter».
Chi le piacerebbe avere come ospite a L’ultima parola?
«Qualche leader politico disposto a metterci la faccia. Non è mica facile, sai? Spesso i politici, prima di intervenire in trasmissione, chiedono forme di protezione dalle domande, ma lo spirito del programma è proprio non concederle».
Sono proprio quei leader ad aver tradito la gente?
«Io osservo i fatti. La Seconda Repubblica era iniziata con un forte spirito riformista, con prospettive di cambiamento del Paese. Pensiamo all’idea federalista. È stata tradita. I bilanci regionali sono stati aumentati con la stessa irresponsabilità con cui è aumentato il disavanzo statale. Le imprese sono state tradite dallo Stato, Equitalia ha fatto danni al Nord. Oggi ci sono persone che chiudono l’attività e si ammazzano, un tempo venivano lanciate solo le monetine».
I problemi di oggi sono gli stessi di vent’anni fa?
«Gli stessi. Chi è germogliato nell’humus delle imprese del Nord non ha saputo dar loro rappresentazione adeguata. Il problema è trasversale: la sinistra non tocca palla in Settentrione perché è fuori dal mondo, non conosce davvero quel territorio. Basti pensare che organizza ancora comizi alle 4 di pomeriggio, quando la gente lavora. Poteva dar voce a prospettive riformiste con Chiamparino, Cacciari. Ha scelto invece Calearo. Il popolo della triade identitaria”famiglia-capannone-campanile”, per intenderci, aveva creduto molto nel tandem Berlusconi-Bossi. Loro sono arrivati a Roma come marziani, forse Roma non era pronta a percepire il loro linguaggio, ma loro non sono riusciti a farsi intendere e a incidere come ci si aspettava. La questione resta aperta ai loro successori e ai loro competitor».
Non hanno forse pesato anche vicende giudiziare extra-politica?
«Non più di tanto, la gente al massimo ride delle vicende personali di Berlusconi. Il problema della rappresentatività economica e culturale di una certa fetta produttiva di Paese è ancora lì sul tavolo. Noi intendiamo dargli voce. Oltre che dalle fiction, il territorio è rappresentato anche dalla realtà. E quando gli imprenditori iniziano a suicidarsi, è bene che i politici drizzino le antenne».
Il palinsesto Rai drizzerà mai le antenne proponendo L’ultima parola in prima serata?

«Forse la dimensione ideale del programma, per ora, è la seconda serata. Per la prima serata, mi piace fare degli speciali. Dipenderà poi dalla volontà della dirigenza».

 
Gabriele Gambini
 
(Nella foto Gianluigi Paragone)