Pubblicato il 30/03/2012, 14:18 | Scritto da La Redazione

NICCOLÒ AGLIARDI: «”SPIT” È UN PROGRAMMA URLATO, MA GARBATO»

NICCOLÒ AGLIARDI: «”SPIT” È UN PROGRAMMA URLATO, MA GARBATO»
TVZOOM ha intervistato il cantautore, quest’anno giudice della prima edizione del programma rivelazione di MTV, prima trasmissione dedicata al confronto tra rapper freestyler italiani I riti di passaggio sono adorabili. Specie quando il passaggio non è obbligato ma scelto e quando il rito va a braccetto con il ritmo. Il rito del freestyle, la composizione […]

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TVZOOM ha intervistato il cantautore, quest’anno giudice della prima edizione del programma rivelazione di MTV, prima trasmissione dedicata al confronto tra rapper freestyler italiani

I riti di passaggio sono adorabili. Specie quando il passaggio non è obbligato ma scelto e quando il rito va a braccetto con il ritmo. Il rito del freestyle, la composizione di versi metropolitani in salsa rap, è una sorta di liturgia pagana per molti adolescenti aspiranti artisti della parola e ha trovato asilo in SPIT, il programma di MTV in cui i freestyler, in un’arena circondata da pubblico, raccontano in rime la loro versione dei fatti di attualità, i temi dei quali si sentono partecipi. Verrebbe da domandarsi che cosa ci fa Niccolò Agliardi, uno che è nato con De Gregori e Fossati, un artista poliedrico capace di comporre brani per Laura Pausini, Emma Marrone, Mietta, Ramazzotti, oltre che di fare incetta di premi con i suoi album, nelle vesti di giudice. La domanda però trova risposta nello stesso istante in cui viene formulata: nessuno meglio di Agliardi sa definire l’aspirazione che si fa ispirazione, lo scarto estetico tra ciò che un artista sente dentro per vocazione e tira fuori per intenzione.

Niccolò, come è nata l’idea della sua partecipazione a SPIT?
«Lo confesso, quando ho ricevuto la proposta di partecipare a SPIT nelle vesti giudice, ero molto diffidente. Due aspetti mi hanno convinto: la concretezza degli autori nel pensare il programma e la poeticità dei concorrenti in gara, elemento apparentemente in contrasto con il luogo comune che vorrebbe i rapper, o gli aspiranti tali, come dei critici rabbiosi della società».
Un esempio di animo poetico che alberga dentro ai freestyler?
«Faccio qualche nome. Mi ha colpito, tra i concorrenti, Rancore, che, a dispetto del nome battagliero, è un personaggio denso di fragilità meravigliose, capace di trasformarle in parole. Il contrasto tra il nome ruvido e le sue debolezze è la sua forza. Poi penso a Moreno, soldatino della parola tanto spregiudicato sul palco quanto timido nella vita. E non posso non citare Chiave e Clementino, dalla maggior esperienza e dotati di grande talento».
SPIT è la riprova che il tanto vituperato rap può veicolare contenuti interessanti?
«Io non farei troppa apologia o filosofia. SPIT è un programma di entertainment e come tale va inquadrato. Però ha dei validissimi punti di forza: pur essendo un programma gridato sa essere anche garbato, ha delle regole precise, sono pronto a garantire per la sua autenticità e spontaneità. Questo non è poco. Anche la location, apparentemente cupa, diventa il luogo ideale per un confronto rispettoso. Sai qual è il punto di forza vero? Il fatto che non ci siano le classiche telecamere puntate in faccia a farti capire che siamo in televisione. È come se si spiasse, di nascosto, una gara di freestyle per strada. Non c’è scrittura preventiva, non c’è costruzione autorale. Niente è pianificato. I ragazzi conoscono il tema della “battle” solo poco prima di iniziare».
La considera un’esperienza in tutto e per tutto positiva: ora sarebbe pronto a fare il giudice in qualche altro talent?
«In SPIT io ero un oustider che ha saputo conquistarsi la fiducia dei fan del rap. Se rimango salvo e incolume da questa esperienza, posso fare qualsiasi cosa, a patto che si parli davvero sempre di musica».
A proposito di musica: come si identifica un nuovo talento?
«Partendo da un presupposto imprescindibile: oggi pubblicare un disco è sinonimo più di fatica che di successo. Occorre il fuoco sacro della comunicazione, l’urgenza di raccontare qualcosa che non sia banale. Non c’è alcun bisogno di pubblicare dischi, a meno che non siano davvero speciali per qualche motivo. Un aspirante cantautore deve raccontare qualcosa di speciale, o raccontarlo in un modo speciale. Non mi interessano i cloni di qualcun altro, non mi interessano i gusti culinari di chi compone. Ho bisogno di sentire l’autenticità dell’urgenza di comunicare».
Il talent può essere un veicolo per promuovere davvero i potenziali talenti? C’è chi ne critica la formula guardando al passato con nostalgia…
«I talent sono il presente, ma in parte anche il passato, ormai come formula esistono da parecchi anni. Mettiamola così: forse se si presentassero a un talent show Bob Dylan o Ivano Fossati verrebbero scambiati per degli strambi personaggi. Però una figura come quella di Emma è perfetta per emergere al giorno d’oggi in questo modo. Siamo figli dei nostri tempi e, non scordiamolo, abbiamo la fortuna, se ci va, di ascoltarci De Andrè, Fossati o Bob Dylan e di apprezzare Emma o un artista vincitore di un talent. Sono programmi che hanno portato ossigeno e moneta al mondo della musica, non è poco».
E la tv, svolge ancora un ruolo determinante, nonostante le nuove tecnologie?
«La tv è una cellula della comunicazione, è un mezzo, non il fine ultimo. Mette in moto altri media: per esempio, se io e te stiamo parlando ora, è per merito della televisione. Detto questo, siamo in un periodo di grandi cambiamenti, è normale vi siano scosse di assestamento con qualche ferito nei tre grandi poli della tv nazionale. E poi, se mi è concesso dirlo, con il berlusconismo si era imposto il culto individualista del personaggio che detta un modello comportamentale alla massa, ai più deboli e suggestionabili. Oggi questo non è più necessario: per emergere, occorre essere meno individualisti e più parte integrante di un progetto collettivo. Senza scordare che gli spettatori sono sempre un pubblico attivo: sanno annoiarsi, sanno indirizzare le scelte e essere partecipi. Che non significa solo dilettarsi nella critica su Twitter o sui social network. Faccio un esempio: se il GF chiude, è perché ormai ha stufato».
Un esempio di tv che ama e di tv che non sopporta.
«La mia piccola perversione è Mela Verde, distensivo e interessante. Mi piacciono i canali tematici, i documentari. Non sopporto il varietà, a meno che non sia davvero di qualità, come quello proposto da Fiorello, per intenderci».
E Sanremo? Lo ha guardato?
«Sanremo è il classico evento a cui tutti i miei colleghi vogliono partecipare, salvo poi dichiararsi felici di non essere stati scelti. Avevo presentato un mio brano, non sono stato selezionato, pazienza». 
L’artista con cui ha collaborato che ha segnato in lei un solco particolare?
«Premetto che non potrei scrivere un brano senza essere felice di eseguirlo io stesso. Un rapporto umano profondo e proficuo è condiviso con Laura Pausini, per fare un nome».
Una domanda alla Marzullo: ha mai rinunciato a qualcosa di importante per fare qualcos’altro di altrettanto importante?
«Tante volte. Però, se sono qui oggi e sono felice, significa che rifarei le stesse scelte».
Qualche suo progetto imminente?

«Domenica sera sarò al Teatro Valle Occupato, a Roma, per un’iniziativa a cui tengo molto. Si chiama Ostinati e Contrari- La profezia delle Onde, è uno spettacolo teatrale sulla poetica di Fabrizio De Andrè, a cui parteciperanno anche 40 artisti mentalmente disabili, su modello artistico e riabilitativo de La Stravaganza Onlus».
Il riferimento alla serata è in questo link: non perdetevelo.
http://ioeden.altervista.org/blog/progetti/ostinati-e-contrari/
 
Gabriele Gambini
 
(Nella foto Niccolò Agliardi)