Pubblicato il 24/03/2012, 13:44 | Scritto da La Redazione

ANDREA GHERPELLI: «”FACCIA D’ANGELO” RACCONTA IL TERRITORIO»

“Il Moro”, braccio destro de “Il Toso” nella fiction “Faccia d’angelo” si confida a TVZOOM e analizza i punti di forza della fiction Sky

Fa bene Andrea Gherpelli, “Il moro” di Faccia d’angelo, ciuffo ribelle e aria smargiassa, a sottolineare come la cronaca nera possa diventare un pozzo senza fondo da cui attingere per raccontare l’evoluzione di un territorio, un espediente narrativo per descrivere l’evoluzione della società, senza intenti celebrativi, tanto meno didattici. Forse perché raccontare l’antieroe oscuro senza celebrarlo piace al pubblico, specie in un contesto qualitativo. 

(Per dirla con linguaggio dei fumetti: c’è più vitalità nello smacchiare la coscienza sporca di Kraven il cacciatore, aristocratico russo fuggito insieme ai genitori dopo la caduta dello Zar che nelle pieghe irreprensibili del suo nemico Uomo Ragno, troppo impegnato a tessere la tela dove si impiglierà la retorica delle sue verità assolute).
Andrea, raccontare l’antieroe negativo piace al pubblico?
«Il lato oscuro interessa sempre, ma questo non basta per spiegare il successo di Faccia d’angelo o di Romanzo Criminale. Il punto è un altro. Con serie tv come queste è stata raccontata l’evoluzione di un territorio e l’appartenenza dei protagonisti a quel territorio. La parabola delle due puntate di Faccia d’angelo, e la sua tragica conclusione, spiega chi erano Il Toso, il Moro e la loro compagnia: ragazzi di provincia, di estrazione contadina, abbagliati dalla prospettiva di entrare a far parte del bel mondo, convinti di cavalcare l’onda dello sviluppo economico, approfittandone con la violenza. La fiction ovviamente non li celebra, anzi, mostra tutta la drammaticità dei loro errori irrimediabili. Il messaggio è chiaro: ha senso far del male e poi morire per vivere qualche anno da rockstar?».
Il Moro è un personaggio emblematico: uno che spara e si fa il segno della croce, come i veri gangster…
«Anche questo aspetto, la religiosità popolare, è un tratto tipico del legame con la terra. Io ne so qualcosa, sono nato a Correggio, in Emilia, in una realtà rurale dove c’erano più animali che persone. Gli unici due riferimenti per la gente erano il bar e la parrocchia. Ho in mente una scena della fiction: quando Il Moro dialoga con il crocifisso e chiede a Dio la forza per compiere il male. Quella scena non era stata messa a copione, è nata da un’intuizione di Andrea Porporati e sviluppata da me. Mi piace pensare sia l’emblema di una certa doppia morale tipica dell’educazione cattolica, un po’ contraddittoria. Compiere il male nella convinzione di cavarsela con l’assoluzione dal peccato».
II territorio è sinonimo di appartenenza, dunque portatore di tratti anche positivi, di cultura, di linguaggi: come si è trovato a recitare in Veneto?
«Per quanto riguarda il linguaggio, ho avuto una compagna friulana e spesso sono stato in Veneto, dunque mi sono trovato abbastanza a mio agio nel recitare con quell’accento». 
Tutti i protagonisti davano l’idea di una grande coesione…
«Prima di iniziare le riprese, Elio Germano, Linda Messerklinger, io, così come gli altri componenti del cast, abbiamo trascorso un buon periodo assieme. Era essenziale proprio per sviluppare quella coesione, per mostrare la storia di ragazzi dalle radici comuni, vissuti assieme fin dall’infanzia».
Questo potrebbe essere uno degli ingredienti del vostro successo?
«Uno dei tanti. Faccia d’angelo è piaciuta perché racconta una storia senza facili ammiccamenti, cerca la verità senza salire in cattedra, ha per protagonista Elio Germano, che non è solo un attore, è uno che sa vivere fisicamente ed emotivamente il ruolo interpretato. E poi, perché non è approssimativa. Insomma, è girata bene, un particolare fondamentale».
Lei è un ingegnere, ma fa l’attore. Perché?
«Per avere la possibilità di vivere molte vite. Una vita sola, non mi basta, non ce la farei mai! Ho studiato ingegneria per assecondare quelle prospettive di vita “normale” tipica della realtà in cui sono cresciuto. Però mio padre, di origine contadina, quando ero piccolo scriveva testi che poi io recitavo con amici. Da lì è nato tutto. Suono anche la batteria, canto. Mi piace esibirmi a teatro, nel teatro-canzone (quest’estate sarà in tour al Teatro 1 di Roma, nda). Recitando conosco gente nuova, leggo libri che non avrei mai potuto leggere, vivo molte vite, appunto».
Teatro e tv sono compartimenti stagni?
«In Italia, sì. Il pregiudizio c’è, quando un attore di teatro si presenta a un casting tv c’è chi storce ancora il naso. Ma io non ho una formazione accademica, dunque posso spaziare».
Quale vita vorrebbe vivere, ora, sullo schermo?
«Mi sarebbe piaciuto fare l’Ultimo dei Mohicani, ma sono arrivato tardi. Chissà, mi piacerebbe interpretare una rockstar. Oppure il Dalai Lama, o un personaggio dotato di grande forza spirituale».
Confrontarsi con un personaggio, in fondo, è un po’ come raccontare una verità parziale a se stessi: non sei costretto ad accettarla come se fosse intera, e quel cinquanta per cento di libero arbitrio che ti rimane, puoi spenderlo come moneta corrente con le tue opinioni. Meglio di così!
 
Gabriele Gambini
 
(Nella foto Andrea Gherpelli)