Pubblicato il 22/03/2012, 11:06 | Scritto da La Redazione

LINDA MESSERKLINGER: «”FACCIA D’ANGELO” È UNA FICTION VISTA CON OCCHI CINEMATOGRAFICI»

messerklinger

TVZOOM ha intervistato la giovane protagonista femminile della fiction di grande successo trasmessa da Sky, che ha raccontato la sua esperienza a fianco di Elio Germano e alcuni aneddoti della sua carriera di attrice.

D’accordo, la fiction si chiamava Faccia d’angelo riferendosi a Felice Maniero (in realtà più un’ispirazione, che un preciso riferimento), ma la donna angelicata potrebbe essere lei, Linda Messerklinger, venticinquenne da Moncalieri già nota in tv per Non smettere di sognare, Morena nella mini serie tv dei record: con una media di 640 mila spettatori nelle due puntate, è stata la fiction più vista della produzione seriale originale di Sky Cinema. 

Leggera ma non eterea, capace di far provare una piacevolezza sottile agli occhi e alla vista di chi la guarda finché gli occhi e i desideri dell’osservatore non entrano in conflitto con i suoi, pronti ad accendersi di vitalità, Morena non è la classica pupa del boss, non cerca un uomo che la catapulti nella bella vita. Lei studia e ha delle personali aspirazioni. Semplicemente, non rifiuta di vivere una passione amorosa libera da sovrastrutture sociali, cosa non di poco conto all’epoca dei fatti narrati (fine anni ’80, al culmine dello yuppismo nordista corsaro rampante, di cui il gangster interpretato da Elio Germano ne è il figlio agreste, degenere e violento).
Linda, il personaggio di Morena è ricco di sfaccettature: soprattutto, ha un’evoluzione costante, evidenziata anche dalla tensione recitativa…
«Morena non è la classica pupa del boss. Viene da una realtà diversa rispetto a quella del “Toso”, ci si imbatte casualmente. È una donna che decide di vivere un sentimento e sceglie di farlo con una rappresentazione molto intensa, molto cinematografica. Il suo modo di vivere la relazione ha un’evoluzione, specie quando a poco a poco viene coinvolta nel mondo del “Toso”. Ho lavorato molto sul cambiamento evolutivo di Morena, specie dalla prima alla seconda puntata».
C’è una scena che identifica al meglio questo cambiamento?
«Forse quando i due devono nascondersi, la fase in cui lei sta cercando di entrare anche nel lato oscuro della vita del “Toso”. Da lì emerge il contrasto tra la parte introspettiva della fiction e quella più dinamica».
Dica la verità, si aspettava un successo del genere?
«Tutti, nel cast, eravamo speranzosi perché consapevoli di avercela messa tutta, di aver fatto un buon lavoro. Personalmente però non ho mai fatto pronostici. Il successo credo sia dovuto a un mix di qualità: scegliere grandi professionisti come Porporati e Germano e affiancare loro un cast di giovani determinati e di talento. E poi, guardare alla fiction con occhi cinematografici e con una solida concatenazione narrativa».
Tra questi giovani c’è anche lei: era tesa, prima di iniziare a girare?
«Mi sono trovata subito a mio agio, con Elio Germano e Andrea Gherpelli ho fatto un gran lavoro di introspezione, i dettagli sono stati curati al massimo. Questo garantisce un margine di sicurezza nell’approccio al set. E poi, leggendo la sceneggiatura, ho conosciuto un nuovo mondo, mi sono imbattuta nella realtà del Veneto, ho esplorato aspetti del territorio che non avrei mai potuto conoscere, anche per ragioni anagrafiche: sono nata nel 1987, più o meno all’epoca dei fatti narrati».
Io ho trovato Faccia d’Angelo fin troppo indulgente nell’essere didascalico e nel salvare la parabola quasi moralista: eppure non sono mancate le polemiche da parte di chi ci ha visto un’esaltazione dell’eroe negativo…
«Credo che ogni polemica si sia spenta nella seconda puntata, quella in cui ha prevalso maggiormente l’aspetto autorale del prodotto, l’intento artistico, la forza narrativa che annulla ogni tentativo di celebrazione o di referenzialità».
Maniero di Porporati e Germano come Vallanzasca di Placido e Kim Rossi Stuart?
«La differenza c’è ed è sostanziale: Kim aveva interagito con Vallanzasca prima di girare il film, chiaro riferimento a voler raccontare un’esperienza quasi biografica. Elio non ha mai conosciuto Felice Maniero, ha dato libero sfogo all’atto creativo, alla rappresentazione di un’idea, più che di un fatto. Stessa cosa per me, con Morena».
Questa è la sua seconda grande esperienza televisiva, dopo Non smettere di sognare: ha riscontrato delle differenze tra i due ruoli?
«Erano ruoli pensati per target molto diversi tra loro. Con Non smettere di sognare mi sono cimentata sulla lunga serialità, il che significa tempi molto serrati, acquisire un preciso senso del ritmo in una dimensione lavorativa di ampio respiro, un po’ come timbrare il cartellino quotidianamente, per certi versi. Faccia d’angelo ha avuto un approccio più cinematografico, dunque abbiamo curato i dettagli con maggior forza concentrandosi su scene specifiche e lavorandoci di più».
Forse Faccia d’angelo è più vicina a essere considerata “tv di qualità”. Ha una sua idea di qualità televisiva, fiction a parte?
«Guardo poca tv, ma mirata: mi piace il giornalismo d’inchiesta, mi piace la satira leggera ma creativa. Ecco, penso a Serena Dandini: cerca di raccontare l’attualità con piglio sincero, divertente, mai distorto. Cosa rara, di questi tempi, anche nei telegiornali».
A lei piace stare davanti alle telecamere, lo si percepisce. Non preferisce il teatro, con cui ha cominciato?
«Mi viene naturale stare davanti a una telecamera, è la mia dimensione ideale. Il teatro consente però una maggior progettualità personale, l’idea di performare dal vivo è stimolante. Io sono nata e cresciuta in un’ambiente di teatranti, mia mamma era un’attrice e musicante, una sorta di cantastorie, fin da bambina assistevo alle prove in casa. È giunto tutto in modo molto naturale».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Prendere armi e bagagli e trasferirmi a studiare recitazione a Roma, a diciotto anni. Mettermi in proprio, in un certo senso. Un incontro che mi ha cambiato la vita: aver conosciuto Marcel Marceau».
E da lì sono iniziate le esperienze dei casting: che ricordo ha dei primi lavori? Qualche esperienza particolarmente coinvolgente?
«Aver lavorato con Dario Argento! Ricordo quando, sul set di Giallo, dovevo interpretare una ragazza morta da qualche giorno. Il trucco era ovviamente pesantissimo, per caratterizzare il mio aspetto cadaverico. D’un tratto, Argento mi si avvicina e mi suggerisce di iniziare a fare smorfie, a contorcermi, a fare boccacce. Io penso “Ma quando mai si è vista una morta fare delle smorfie? Perché me lo sta chiedendo?”. Poi ho scoperto che si trattava di un suo personale modo di entrare in empatia con me, di sviluppare confidenza». 
Ha già lavorato con grandi maestri, soprattutto al cinema: che cosa le manca?
«Ancora tantissime cose da fare. Mi piacerebbe lavorare con Sorrentino o con Emanuele Crealese, oppure Ozpetek o Virzì. Mi piacerebbe anche interpretare un ruolo femminile lontano dallo stereotipo della donna funzionale a un protagonista maschile. Penso a una rockstar come Patti Smith, per esempio».
Le piace la musica, dunque!
«Adoro la musica, sogno un giorno di incidere un disco come cantante. Per il momento, ho iniziato a strimpellare la chitarra».
Se non fosse diventata un’attrice sarebbe diventata una musicista?
«No, forse una ballerina. Ho studiato danza per tanti anni, di pari passo con la recitazione. Poi ho scelto la recitazione. Da piccola però avevo anche pensato di fare la stilista: conservo ancora i quaderni su cui disegnavo i miei modelli».
Lei è la riprova che in Italia c’è spazio per le nuove leve…
«C’è spazio, a patto che si accetti una dimensione di precariato, inevitabile nel ruolo dell’attore. E che si creda in se stessi smarcandosi dagli stereotipi individualisti».
Ovvero?
«Evitando l’approccio competitivo al mestiere. Recitare è un lavoro di cooperazione, l’individualismo esasperato non fa del bene al settore. Mi viene in mente un esempio calzante: il Teatro Valle Occupato, a Roma. Un laboratorio per giovani attori che rende al meglio il mio concetto».
 
Gabriele Gambini
 
(Nella foto Linda Messerklinger)