Pubblicato il 01/11/2017, 15:00 | Scritto da La Redazione

Antonio Ricci: Sono già morto, ma nessuno mi crede

Antonio Ricci: Sono già morto, ma nessuno mi crede
Il papà di “Striscia La Notizia” a 67 anni vive ancora in un residence, crede di essere già morto e si racconta in un libro di memorie. Così l’intervista di Malcom Pagani sul settimanale “Vanity Fair”.

Antonio Ricci: La tv? Mi ha rapito a mia insaputa

Rassegna stampa: Vanity Fair, di Malcolm Pagani.

A 67 anni vive ancora in un residence, crede di essere già morto e si racconta in un libro di memorie. Grillo e Berlusconi, i Martini “perfetti” di Umberto Eco, la tv a luci rosse, la sua essenza profonda “da vero cialtrone” e il desiderio di andare contro tutti: “Più c’è burrasca e più mi diverto”.

Mezzo secolo da azionista occulto di alberghi e pensioni dalla genesi incerta e dall’ancor più dubbia pulizia: «Non ho mai voluto acquistare una casa, non ho mai dormito nello stesso letto per più di due settimane consecutive e sono rimasto a vivere in residence, a Milano 2, combattendo pazientemente con ragni, insetti e altre orrende bestiacce».

Tra lucidi consuntivi: «Dal 1968 a oggi, investendo gli stessi soldi, avrei potuto comprarmi mezza Lombardia» e recidività compiaciute: «Umberto Eco mi diede del criminale e ancora oggi non c’è definizione a cui tenga di più», il gran ligure della tv italiana, Antonio Ricci, osserva in lontananza i suoi primi settant’anni forte di una consapevolezza che al fatidico momento non lo sorprenderà: «Sono certo di essere morto già da tempo, ma quando lo teorizzo non mi credono».

Per indignare i contemporanei e lasciare ai posteri memoria di sé, Ricci ha scritto un libro, Me tapiro, in cui – liquidato il titolo: «Un orrore che all’editore è parso un’idea geniale» – far brillare il teppista di ieri, l’iconoclasta di oggi e l’uomo che domani, forse, cercherà direttamente un accordo con l’Altissimo: «Ho già espiato rispondendo per buona parte del libro alle moleste domande del giornalista Luigi Galella, poi ho devoluto i proventi al gruppo Abele. Non credo in Dio ma a certi preti sì».

Nella cupezza senza redenzione delle palazzine Mediaset di Cologno – «Sembra Togliattigrad o nella migliore delle ipotesi Stalingrado: pare un luogo in cui al posto degli spettacoli, producono le brugole» – l’unica colorata è quella di Striscia la notizia: «Ci hanno deportato qui da due anni, ma non potevo subire senza reagire e, per avere osato tanto, qui dentro ci odiano. Dalla tangenziale, in fila, si vede un tendone da circo. Ho voluto metterlo sul tetto in modo che non ci fossero dubbi sull’intenzione».

E qual è l’intenzione?

«Destrutturare, irridere, dare tinta all’eterno grigio di chi si prende troppo sul serio. Prendere o essere presi per il culo è sempre meglio di essere presi per il collo».

Ha conosciuto tanta gente che si prendeva troppo sul serio?

«Ho incontrato persone che soffrivano nell’indossare la loro stessa maschera».

Ce l’abbiamo tutti?

«Nessuno escluso. Nel 1981 invitai in tv Léo Ferré, il simbolo dell’anarchia in musica. Prima di entrare in scena si fermò davanti allo specchio per spettinarsi. Non voleva dare l’impressione di essere diverso da quel che gli altri credevano che fosse. Lì per lì rimasi di sasso, poi capii».

Cosa capì?

«Che chi è chiamato a esibirsi deve travestirsi e chi va in tv si vende. Si prostituisce. La tv è un’enorme vetrina a luci rosse in cui tutti smerciano qualcosa e non c’è chi non si acconci per essere comprato».

È dunque questo, Antonio Ricci? Una puttana colta? Un tipo umano che ha il mercimonio come affare?

«Magari! La mia vera perversione è che provo piacere e sprofondo in abissi di voluttà a fare quel che faccio. Pagherei io. Non ho esclusive, non vado in tv e non mi drogo, che è un po’ la stessa cosa».

Si sente più vittima o carnefice?

«Per natura, non sono un soggetto passivo e atteggiarmi a vittima non mi è mai piaciuto. Ho sempre vissuto i processi che ho avuto, reali e metaforici, come un’opportunità. Non riesco a intristirmi se qualcuno si scaglia contro di me. Anzi».
È un riflesso masochistico?

«È un riflesso ludico. Se partecipo al gioco, gioco davvero. Altrimenti mi annoio. Mi piace la sfida e amo la burrasca. In mare vado a cercare l’onda alta. L’unico cruccio è essere nato quando ancora non esisteva il surf. Sarei stato sulla tavola, ne sono certo, da mattina a sera. Spesso ho corso il rischio di essere strumentalizzato. Le ho prese e come si conviene in battaglia, le ho anche date».

Qualche volta ha rischiato comunque di affogare.

«Lo stesso gruppo editoriale che da anni aveva l’abitudine di mettere ogni settimana una donna nuda o un culo in copertina ha scritto a più riprese che mercificavo il corpo della donna. Allora, occultando il nome del giornale, ho mandato come inviata un’ex velina camuffata con una pubblicità pornografica in mano a una manifestazione di “Se non ora quando” e ho raccolto lo sdegno dell’intellighenzia femminista. Non sa le facce quando si è scoperto che parlavamo di Repubblica. Altri scrittori di cui si è persa traccia, invece, hanno giurato che avessi instupidito gli italiani in concorso con Berlusconi».
È falso?

«È bastato il documentario di Luca Martera per zittire i fautori delle scie chimiche. Prima che arrivasse la macchina del fanghetto, Drive In era stato lodato per anni da gente come Raboni, Placido, Eco, Guglielmi, Del Buono e Fellini. Drive In andò in onda sulla più periferica delle reti di Berlusconi e lui lo vedemmo solo per un fuggevole brindisi di fine produzione, il primo anno».
Ma gli italiani si sono instupiditi davvero?

«A me pare siano sempre gli stessi. Autoindulgenti con se stessi, pecoroni alla bisogna, pronti, anzi prontissimi a dare agli altri la colpa dei propri fallimenti. Ogni tanto sento dire: “Siamo così perché c’è stato il ’68” o peggio: “È tutta colpa della tv”. Ma quando mai?».

Ionesco diceva: «Diventerete tutti notai».

«C’era chi a Genova in tasca aveva Il Manifesto e una volta tornato a casa in provincia indossava nuovamente l’abito da baciapile. Erano di sinistra, ma a mezzo servizio. Ma con la decadenza, il ’68 non c’entra niente. E non c’entra neanche la tv. Vuole sapere una delle mie massime preferite?».
Dica.

«Non è la tv che crea i deficienti di oggi, è la scuola che alleva quelli di domani».

È mai stato in analisi?

«Ma le pare che vado a raccontare i fatti miei a uno sconosciuto?».
Almeno si sarà analizzato.

«Ho due difetti tremendi. Ho buona memoria e spesso capisco in anticipo cosa pensano gli altri».

È una iattura o una fortuna?

«Dipende. A volte con l’interlocutore mi annoio, ma altre utilizzo questa noia per spiazzarlo. E quindi mi diverto».

Lo manipola?

«Forse un po’ sì».

Quindi Ricci è un manipolatore?

«Manipolo per migliorare il prossimo. Ribalto l’osceno postulato del colpire uno per educarne cento e mi rifaccio alle tavole di Striscia, punto 44: Rovesciare l’utopia pedagogica delle Brigate Rosse, bisogna colpirne cento per educarne, forse, uno. Il precetto è ancora valido».

Il punto 45 cosa recita?

«Il dubbio è il padre di Striscia. Ancora valido, anche quello».

Usa mai Striscia come un manganello?

«Di solito agisco per legittima difesa verso gente malvagia. Se occupi con la macchina il posto dei portatori di handicap, devo salirci sopra con la carrozzella perché sospetto che dire “non lo faccia più” abbia un’efficacia relativa. Ma, in generale, non infierisco. So sempre che mi fermo molto prima, in questo senso, sono veramente di razza pellerossa».

E come è l’apache Antonio Ricci che un giorno a Sanremo finì in una riserva indiana?

«Uno che tocca la mela ben sapendo che la mela marcirà da sola. Non la schiaccio. Non ce n’è bisogno».

Il ragionamento non rivela un delirio di onnipotenza?

«Io sono consapevole che a rischio della mia vita vado a toccare le mele, ma non sono così stupido da non sapere che se non marciscono, possono diventare meloni. È il mio rischio d’impresa, ho affrontato più di 300 cause in tribunale senza essere mai condannato ».

Ascoltandola parlare di televisione si avverte sempre una distanza innaturale.

«È vero, la faccio a mia insaputa».

È grato a qualcuno?

«Io sì, ma la gratitudine è un sentimento ambiguo. Di solito, quelli a cui fai un piacere, sentono il bisogno di ammazzarti».

Come mai?

«È la sindrome del miracolato. Se ti ammazza dimentica i benefici che ha avuto e la sua stessa mediocrità».

Con Berlusconi i suoi sodali hanno peccato di ingratitudine?

«Se lui pensava che le ragazze fossero veramente innamorate, sì. Se invece si tratta di strategie commerciali, il discorso è diverso. Sa qual è la cosa che lo avrà fatto soffrire di più in tutta la storia delle intercettazioni sul Bunga Bunga?».
Quale?

«Che le olgettine abbiano detto che aveva il culo flaccido. Per uno che si è sempre curato, dai tacchi ai capelli finti come una diva, deve essere stato un colpo durissimo. Non aveva mai pensato a guardarselo».
Altri colpi?

«Una volta mi disse: “Bello essere liberi, piacerebbe anche a me, ma io che ho tutto questo, invece, devo infilare il cappottino a Forlani quando va via da Arcore”».

Beppe Grillo è un suo amico.

«L’ho conosciuto nel 1971 o forse prima, sul campo di calcio dell’Albenga. All’epoca, con sublime faccia di bronzo, si attribuiva impunemente canzoni di Jacques Brel e girava per i teatrini con il “Librone”».

Cos’era?

«Un libro per appuntarsi le battute degli altri comici allo scopo di riciclarle».

Prima di andare sul palco, lei faceva il preside.

«Di un istituto agrario. Anche se nessuno mi sta sulle palle come chi mi chiede se sono felice, credo che sarei stato felice, anche da preside. Comunque Beppe in giro mi presentava così: “Ecco a voi il più giovane preside d’Italia”. Nessuno gli credeva e allora si inventava per me i ruoli più strani. Una volta Grillo disse a Mario Soldati che un ammiratore americano voleva conoscerlo a ogni costo».

Chi era?

«Io, nei panni di Martin Scorsese. A Soldati brillavano gli occhi. Tenni la parte con un notevole grado di immedesimazione. Non a caso Giovanni Salvi, gran visìr della Rai di un’epoca lontana, non dubitava: “Ricci e Grillo? Mai conosciuti due cialtroni più giganteschi di loro in tutta la mia vita”».

Chi altro le è antipatico?

«Ho una sincera ripugnanza per chi dice di un altro: “È una bella persona”. Ma quale autorità assoluta, quale guida morale devi sentirti per giudicare un altro? Da che vette ti esprimi, esattamente?».

Con chi si è divertito nella vita?

«Con tanta gente, quasi sempre con quelli apparentemente diversissimi da me».

Un nome?

«Umberto Eco. Una volta, dopo un colloquio pubblico, finimmo a bere Martini in un bar. Mi raccontò di sua sorella che era cabarettista e lodò le canzoni di Brassens. Giurava di essere un esegeta del perfetto Martini, però nell’attesa trangugiava anche quelli imperfetti. Una volta all’aria aperta, inciampò in uno scalino e volò su una fioriera. Io, come nei film di Chaplin, provando a salvarlo, ruzzolai con lui».

E poi?

«Come se nulla fosse, Eco si sollevò, tolse con indifferenza le foglie dal cappotto e disse soltanto: “Ci vediamo la prossima volta”».

In cosa crede Ricci?

«Non in Dio e sicuramente non in me stesso ».

Sogna di reincarnarsi?

«In una piattola forse, tanto sono sempre stato sui coglioni a tutti».

E da qui, da questi studi, tra trent’anni vuole uscire in orizzontale?

«Ho due modelli della Mafia Ligure. Gino Paoli che a 83 anni canta sempre meglio e Renzo Piano, fresco ottantenne, che vuol morire in un cantiere. Che devo fare? Poi, gliel’ho detto prima, ma lei pare non credermi: son già morto».

 

(Nella foto Antonio Ricci)