Pubblicato il 31/07/2017, 16:35 | Scritto da Tiziana Leone

Il racconto della morte di Yara e quel labile confine tra finzione e realtà

Il racconto della morte di Yara e quel labile confine tra finzione e realtà
Il docu-film ben realizzato lascia il dubbio che tutte le parti in causa, avvocati, pubblici ministeri, familiari, siano lì a recitare il loro ruolo in una storia tragicamente reale.

In Ignoto 1, Yara DNA di un’indagine in onda in questi giorni su TV8 c’è il racconto perfetto delle indagini che hanno portato alla condanna di Bossetti. Anche se il processo non è ancora finito.

Un racconto fitto, dettagliato, di quelli che non ti perdi nemmeno una virgola, perché ti intriga più di Seven, solo che non è un film, ma è la realtà. Passi dalla certezza che sia colpevole, al dubbio però poveraccio magari non era suo quel Dna, dalla convinzione che Massimo Bossetti, condannato in secondo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, sia un mostro schifoso degno della peggior morte, al pensiero che forse se sta lì a piangere tra le braccia della moglie non può aver seviziato e ucciso una ragazzina.

Ignoto 1, Yara DNA di un’indagine il documentario internazionale nato da un’idea della BBC, già trasmesso su Sky Atlantic e in questi giorni in onda su TV8 è il diario di un percorso investigativo che ha riempito giornali e telegiornali, diviso l’opinione pubblica e alla fine portato alla condanna dell’unico imputato. Un affresco ben realizzato i cui dettagli mostrano tutte le parti in causa, avvocati, pubblici ministeri, periti, medici, familiari, tutti elementi fondamentali di una grande fiction costruita ad arte per un racconto televisivo che però è tutta realtà. Si fa fatica a scindere le due parti, il prodotto in cui gli avvocati si mettono al servizio della telecamera che li segue anche nelle riunioni o il pubblico ministero si lascia inquadrare persino durante il corso di arti marziali, dalla realtà che racconta di una ragazzina morta di stenti perché lasciata in un campo in mezzo al fango, di inverno, al buio, «ritrovata con un po’ di erba in mano probabilmente strappata negli ultimi spasimi che precedono la morte».

Orrore. Chiamatela pure ricostruzione perfetta di un’indagine, scovate dna e tradimenti, la madre di Bossetti che ha fatto i figli con un altro padre, la sorella che non ci crede, perché la vita di mia madre non mi interessa, la moglie che sgrida il marito in carcere perché era passato davanti alla palestra di Yara quattro volte, raccontate tutto, ma vi prego, c’è un solo termine per tutto questo, l’orrore: non ha altri nomi. Difficile guardare il programma senza chiedersi se tutte le parti in causa in un processo che non è ancora finito, perché si andrà in Cassazione, non hanno agito come “attori” di una fiction: vederli recitare il loro ruolo, entrare in tribunale con i faldoni in mano, lasciare il documento all’ingresso del carcere, insomma agire come fa un Callaghan qualunque, lascia quell’irragionevole dubbio sospeso tra palco e realtà, in cui però la realtà fa schifo.

E ci si chiede se sia giusto che tutti questi signori siano in televisione a fare ciascuno la propria parte invece che scegliere il dietro le quinte di un processo che non è ancora alla parola fine. Oltre a confermare la terribile certezza che il piccolo schermo, al di là di tornisti e veline, sia in grado di irretire anche uomini e donne di legge, pronti a concedersi all’occhio della telecamera perché la vanità non conosce codici, civili o penali che siano.

Tiziana Leone

(Nell’immagine il titolo del documentario)