Pubblicato il 24/05/2017, 14:34 | Scritto da La Redazione

Jonathan Friedland di Netflix all’attacco di Cannes

Jonathan Friedland: “Siamo noi l’alternativa ai blockbuster degli studios”

Rassegna stampa: La Repubblica, di Arianna Finos.

L’avventura di Netflix a Cannes 70 si chiude. In via di smobilitazione il quartier generale in Boulevard de la Croisette, con la bella terrazza dove Tilda Swinton ha festeggiato la première di Okjia. Sgomberato il settimo piano del Carlton, dove una volta erano di casa le major e ora fanno base i nuovi potenti. Dustin Hoffman e compagni parlano di The Meyerowitz stories. Ma “l’affaire Netflix”, come l’ha definito ironico il capo dei contenuti Ted Sarandos, è destinato comunque a tenere banco fino al Palmarès: il presidente di giuria Pedro Almodóvar assegnerà premi a film che non usciranno in sala? Il bilancio lo fa il Capo della comunicazione globale Jonathan Friedland, a Netflix dal 2011, ex giornalista del Wall Street Journal, nel team che vinse il Pulitzer per la copertura dell’11 settembre.

Soddisfatti dell’avventura a Cannes?
“È stata straordinaria. È la cattedrale del cinema e noi abbiamo portato due film, diversi tra loro. Un grande risultato, considerando che sviluppiamo questo tipo di contenuti da soli due anni. Siamo produttori giovani”.

Cosa è successo con Thierry Frémaux? Non sapeva che non sareste usciti in sala?
“In Francia ci sono regole particolari, i film che escono in sala non possono passare in streaming prima di 36 mesi, tre anni. Noi siamo felici di andare in sala, in Inghilterra lo facciamo ora con War Machine con Brad Pitt, e spesso riusciamo a uscire in contemporanea in sala e streaming. Abbiamo chiesto ai francesi una deroga, non l’abbiamo avuta”.

Ma non lo avete detto esplicitamente a Frémaux prima del Festival?
“Lo sapeva bene. Vorrei ricordare che abbiamo un modello produttivo specifico: facciamo film per la nostra piattaforma. I nostri iscritti, che pagano i nostri servizi, non possono aspettare tre anni: abbiamo abbonati in Francia che vogliono vedere Okja e The Meyerowitz stories”.

Sarandos dice che tornare senza concorso sarà meno invitante. Che succederà?
“Sinceramente non ne abbiamo idea. Difficile per noi cambiare posizione. Vorrei far notare che ci sono molti film, anche vincitori di premi internazionali, mai usciti in sala. Un Festival dovrebbe pensare non alla distribuzione ma all’arte: abbiamo portato grandi film, che verranno visti da più gente rispetto a tutti gli altri”.

A ogni proiezione della stampa c’erano buu al logo di Netflix.
“Non erano così tanti. E non è importante che qualcuno fischi”.

Non è stata una cattiva pubblicità?
“La buona pubblicità la fa la qualità dei film. E sono anche film radicali. Okja è un film che uno studio non avrebbe mai fatto. Troppo rischioso. Gli studios fanno gli stessi blockbuster, spendono milioni in marketing e il valore di un film dipende dai primi tre giorni in sala. Da noi quando un titolo entra nel catalogo è per sempre”.

Al mercato da distributori?
“Prenderemo un paio di cose, ma ormai lavoriamo sempre di più con i produttori, e sempre di più vogliamo produrre noi per portare i film ai festival”.

Il rapporto con l’Italia?
“Negli ultimi anni abbiamo distribuito Gomorra, grazie a noi è diventato un fenomeno mondiale. Ora la serie Suburra sta venendo benissimo: ho visto i primi due episodi, sono forti, serrati, scioccanti, gli intrecci tra criminalità, politica e la Chiesa… Siamo molto interessanti a investire in Italia e presto annunceremo altre serie”.

 

(Nella foto Jonathan Friedland)