Pubblicato il 19/02/2017, 15:02 | Scritto da La Redazione

Alessandro Minoli: Ho conquistato Hollywood con una sit-com animata

Alessandro Minoli: Ho conquistato Hollywood con una sit-com animata
Il nipote del giornalista Giovanni Minoli ha debuttato su Comedy Central Usa con la serie “Jeff & Some Aliens” e a TvZoom racconta come un italiano può conquistare Los Angeles.

Alessandro Minoli: “Non sapendo come realizzare la mia storia senza budget, l’ho disegnata”

Jeff & Some Aliens racconta di tre alieni che stanno studiando il nostro pianeta con l’aiuto di Jeff, l’uomo più “medio” del mondo. Jeff è un bravo ragazzo, uno sfigato che sta semplicemente cercando di stare a galla in un mondo complicato, e gli alieni diventano in pratica i suoi coinquilini pigri e fannulloni. Hanno sempre voglia di aiutare Jeff, anche se non capiscono bene come funziona questo nostro mondo. Per esempio, nella seconda puntata, Jeff si trova senza soldi per portare la sua fidanzata fuori a mangiare sushi. Gli alieni lo aiutano con una loro tecnologia che gli permette di creare dal nulla qualsiasi cosa voglia, ma c’è una conseguenza: più cose realizza, meno gli resta da vivere. Messo alla prova, bastano cinque minuti a Jeff per perdere il controllo sui suoi impulsi e per perdere 20 anni di vita, comprando Porsche, animali esotici e altre stupidaggini.

Così descrive la sua “creatura” Alessandro Minoli, al suo debutto come showrunner con Sean Donnelly della nuova sitcom animata in 6 episodi, Jeff & Some Aliens, in onda dallo scorso 11 gennaio su Comedy Central Usa. I primi tre episodi sono visibili sul sito cc.com e al momento non è ancora noto quando la serie sarà trasmessa in Italia dal canale Sky di Comedy Central. Abbiamo incontrato Alessandro Minoli per farci spiegare com’è nato il suo progetto.

Alessandro, si sente più italiano o americano?

Sono nato in Italia e qui ho passato i primi sei anni della mia vita. I miei primi e più profondi ricordi sono italiani. Ma ho vissuto e studiato all’estero tutta la mia vita. Quindi, in apparenza, sono diventato americano – con tanto di accento doc e fidanzata texana – conosco molti oscuri e inimmaginabili dettagli della “pop-culture”, ma alla fine sogno segretamente un piatto di spaghetti alle vongole e un pomeriggio al mare. Per tanti anni ho lottato, pronunciando tutte le parole italiane – incluso il mio nome – come un italiano, ma visto che parlo inglese come un americano, quando salta fuori all’improvviso una “R” arrotata o la “L” leggera italiana, la gente sembra spaventata, e non capisce più niente. Ormai, mi chiamano “Olé” invece di Ale, e quando ordino al ristorante, pronuncio i piatti italiani come Stanlio e Ollio per essere sicuro di essere capito.

Che studi ha fatto?

Alla New York University ho studiato teatro, sceneggiatura e anche composizione musicale. Dopo la laurea, ho passato sei mesi a studiare improvvisazione comica alla scuola di Philippe Gaulier a Parigi. Poi sono tornato a New York, e mentre cominciavo a trovare i primi lavoretti, continuavo gli studi seguendo corsi all’UCB (Upright Citizens Brigade), la più famosa scuola d’improvvisazione comica della Grande Mela, che è diventata il punto di riferimento per la commedia alternativa in America.

In che cosa consistevano questi primi lavori a New York?

Quando ho finito la scuola, stavamo vivendo il primo “boom” di contenuti  online – siti come YouTube erano all’avanguardia – e si investiva tanto, sprecando soldi, nella creazione di corti e serie per il web destinati a troppi canali, tutti diversi.  A quel tempo, ho avuto la fortuna di trovare lavoro come scrittore, produttore e attore per siti come MTV.com, IFC.com e altri ed è lì che ho imparato a produrre, realizzare e montare due o tre corti alla settimana a volte.  Contemporaneamente, ho fatto un po’ di stand-up comedy e su Internet si possono trovare uno o due dei miei vecchi sketch.

Come ha cominciato a lavorare in televisione?

Sbattendo la testa come un mulo contro ogni porta. Stavo cercando un mezzo che contenesse tutte le cose che mi interessavano – scrittura, regia, recitazione, musica – e la televisione mi sembrava il luogo ideale. Io e il mio amico d’infanzia, il co-creatore di Jeff & Some Aliens Sean Donnelly, abbiamo deciso un giorno di fare tutto quello che potevamo per realizzare una serie televisiva. La nostra ignoranza di come funzionasse il sistema ci ha permesso un ottimismo abbastanza ridicolo, che ci ha spinto a creare, da soli, un “pilot”. In questo caso, l’unico tipo di contenuto che potevamo fare gratis senza aiuto era un’animazione di 10 minuti, che abbiamo chiamato Basement Gary. Questo corto ci ha permesso, un passo alla volta, di aprirci le porte di Hollywood.

Come e perché ha deciso a un certo punto di trasferirsi a Los Angeles?

Los Angeles rimane il centro del mondo dello spettacolo. Anche prima di andare a vivere a lì, ho fatto 2-3 “pellegrinaggi”, sempre con idee in mano, preparando “pitch” che recitavo a chiunque avesse anche mezzo aggancio con lo showbiz, tipo cugini di coinquilini di nemici e di amici. Pian piano, io e Sean abbiamo trovato un manager – che era in realtà il padre pensionato di un amico, che era stanco di giocare a golf tutto il giorno e voleva fare qualcosa -, che ha letteralmente aperto le pagine gialle dello spettacolo e fatto centinaia di telefonate, trovandoci un giovane agente. Così, abbiamo fatto un sacco di incontri e dopo un po’ abbiamo siglato il nostro primo accordo con Fox, che ha comprato lo stesso Basement Gary per svilupparlo.

Come ha presentato la proposta di Jeff & Some Aliens?

Il pitch è una danza misteriosa in cui creatori presentano le loro idee ai diversi produttori e canali di Hollywood, sperando di conquistare la loro fiducia per trovare i fondi per avviare il progetto. Nel caso di Jeff & Some Aliens, avevamo già creato nove corti per un’altra serie su Comedy Central, dal titolo TripTank. Comedy Central, negli Usa, fa parte del pacchetto “basic cable” ed è famoso anche in Italia per i suoi show irriverenti come  South Park, The Daily Show, Broad City, Inside Amy Schumer e altri. In Fox abbiamo fatto il nostro “pitch” descrivendo i personaggi, l’ambientazione, le diverse trame, insomma tutto quello che serviva per creare un nuovo mondo con materiale narrativo sufficiente per durare anni e anni.

Lei non nasce come disegnatore, ma si è ritrovato a creare una sitcom animata. Come mai?

Ci sono tante idee che, per realizzarle, hanno bisogno di risorse. Questo limite spesso è di ostacolo ancora prima di partire, ma il bello dell’animazione è che basta una penna (elettronica) e un accesso diretto all’immaginazione. Il mio partner, Sean, è un artista di grandissimo livello e quindi, invece di spendere un anno cercando disperatamente di trovare soldi, abbiamo deciso di fare qualcosa di animato. Io, che a malapena disegno, mi sono messo davanti al computer per il nostro primo progetto e ho disegnato sfondi, e infatti alcuni di questi sono inguardabili. Da questo primo progetto siamo arrivati a Jeff & Some Aliens, anche se negli ultimi anni, abbiamo sviluppato progetti di “live action”. È vero che ci sono tante serie animate che hanno come target un pubblico adulto. Credo che ogni anno, con tutto quello che c’è da vedere, il pubblico diventi sempre più sofisticato.  Nel nostro caso, abbiamo cercato di parlare di argomenti seri – la malinconia di diventare adulto, l’importanza di seguire con tenacia i propri sogni -, ma senza limitarci nella rappresentazione dell’imbecillità assoluta. Alla fine, l’animazione è anche un modo per esplorare anche l’oscenità e la follia senza limiti al servizio di una storia interessante.

Come avete messo insieme la squadra?

Siamo stati fortunati perché la serie TripTank è stata prodotta da Shadowmachine, una società di produzione di altissimo livello a Los Angeles. Insieme a loro abbiamo sperimentato un sistema originale per realizzare lo show. Prima abbiamo scritto tutto, poi registrato tutte le voci a Los Angeles, affidandoci ad attori del talento di Christian Slater, Alicia Silverstone, Malcolm McDowell e la nostra star Jeff, interpretata da Brett Gelman. Poi abbiamo aperto una “fabbrica” a Portland, Oregon, dove diversi giovani artisti hanno curato la prima fase dell’animazione. Il resto, comunque, la gran parte dell’animazione, è stata prodotta poi in Corea per arrivare alla supervisione finale a Los Angeles. Tutto sommato, più di cento persone in giro per il mondo ci hanno aiutato a realizzare questo sogno. Dall’ideazione al prodotto finale ci è voluto un anno, che sembra molto, ma quando consideri che 10 puntate di 30 minuti sono 5 ore di contenuti, pari quanto a 4 film con 10 storie diverse, direi che un anno non basta!

Seguiva da bambino i programmi di suo zio Giovanni Minoli, sicuramente il più americano dei giornalisti tv italiani?

Sono sempre stato fierissimo di mio zio – i suoi programmi li seguo ancora! – e certamente, mi ha ispirato a essere audace nelle mie ambizioni nel mondo televisivo. Da ragazzo mi ricordo che lo guardavo con ammirazione quando eravamo a casa sua. Una volta, stavamo parlando e scherzando quando all’improvviso suonò il telefono: mi disse che doveva fare un’intervista alla radio. L’ho osservato mentre parlava di politica, giornalismo, economia con nonchalanche per un quarto d’ora, come se stesse parlando con un vecchio amico. Ora, che a mia volta sto facendo interviste, apprezzo ancora di più quell’abilità di rispondere chiaramente, con intuito, senza dire troppo. Un’abilità che ovviamente sto ancora imparando.

Il recente film “La-La-Land” parla di tenacia, perseveranza e talento come combustibile per sfondare a Hollywood. Quale consiglio si sente di dare a quei registi, sceneggiatori e animatori italiani che sognano Los Angeles?

Qui nessuno ha mai detto: «Devi vedere questo film perché è stato scritto dal cugino di Steven Spielberg!». Ovviamente conoscenze, soldi, e tutti gli strumenti utilizzati dagli essere umani per avere successo senza merito in tutta la storia del mondo valgono anche qui, ma quello che mi ha sempre attirato in questo mestiere è il fatto che non puoi comprare una risata. Non puoi avere una conoscenza o un aggancio che ti aiuterà a scrivere una storia che non sia noiosa. Quanto al consiglio, come dice Jeff in un episodio – travestito da robot-ragazza di 11 anni per cercare di convincere la sua nipotina a non desistere dal sogno di essere musicista – «Follow your dreams!» (Segui ti tuoi sogni).

GUARDA UNA CLIP DI JEFF & SOME ALIENS

 

Twitter@LucaMartera

 

(Nella foto Alessandro Minoli)