Pubblicato il 18/01/2017, 15:30 | Scritto da Gabriele Gambini

Edoardo Ferrario: Vi racconto la mia comicità, sognando Carlo Verdone

Edoardo Ferrario: Vi racconto la mia comicità, sognando Carlo Verdone
A "Quelli che il calcio" crea con successo personaggi ispirati a Cattelan, Zoro, Borghese e Giallini. Ma le origini della sua comicità hanno radici lunghe. Ferrario le racconta in quest'intervista a TvZoom.

Edoardo Ferrario: “Ho pensato di imitare Chef Borghese, giocando sui suoi tratti di affabile piacione, che lo rendono un personaggio autentico”

Qualcuno disse della letteratura: è tutto ciò che è contrario al compiacimento utilitaristico del linguaggio. Qualcosa di simile si può dire per il mestiere del comico. Per Edoardo Ferrario, romano, classe 1987, comicità è «tutto ciò che infrange le regole, divertendo». «Dileggiando i potenti, come accade fin dai tempi dell’antichità, ma anche facendo intrattenimento leggero, mettendo in scena personaggi i cui tratti particolari siano in grado di rappresentare vizi e virtù universali». Come faceva il Verdone prima maniera, uno dei suoi miti di sempre. E come cerca di fare lui oggi. Con le imitazioni/rielaborazioni di chef Borghese, Ale Cattelan, Zoro e Marco Giallini a Quelli che il calcio, su Rai2. Arrivate dopo le esperienze su LA7 con Un, due tre stella, su MTV con La prova dell’otto, su Radio 2 con Staiserena e I Sociopatici e con la webserie Esami, spassoso gioco di specchi in cui affiorano i ritratti deformati di una certa romanità.

La tradizione della comicità italiana è nella commedia dell’arte, nelle maschere. Qualcuno sostiene sia oggi un po’ banalizzata dai formati televisivi cabaret col personaggio tormentone mordi e fuggi, formula collaudata ma stantia.

La tradizione della commedia dell’arte ci appartiene ed è nobile. Da lì nasce l’idea della rappresentazione del personaggio come mezzo per raccontare qualcosa. La apprezzo come punto di partenza per proporre qualcosa di originale, affrancandolo però dallo stereotipo del tormentone. In tv a volte c’è una distorsione rispetto a come viene vissuto il personaggio sul palco: la macchietta che si presenta davanti al pubblico e in pochi minuti recita un cliché non mi piace particolarmente.

In che cosa, il comico moderno, dovrebbe affrancarsi dal rischio di ripetere un cliché?

Col mio lavoro non punto a insegnare qualcosa. Ma cerco di far mia la lezione di Verdone, di Corrado Guzzanti: riprodurre l’universale attraverso la rappresentazione di tratti verosimili e riconoscibili, veicolati attraverso un personaggio. È la cosiddetta comicità osservazionale, punto d’incontro tra la tradizione italiana e la moderna stand up. Una rielaborazione interiore e personale del tipico formato monologo.

Lo ha fatto con la webserie Esami, in cui rappresentava alcune figure tipiche di una certa realtà romana. Lo fa oggi a Quelli che il calcio, ma con vip ben noti al pubblico.

Sono un fan di tutti i personaggi che imito a Quelli che il calcio. Questo mi facilita il lavoro, perché lo scopo non è tanto imitarli, quanto rielaborarli attraverso una chiave interpretativa personale. Per me il linguaggio è alla base dell’imitazione. Parto da lì. Mi concentro sull’inflessione linguistica. Quando capisco che la rappresentazione è nelle mie corde, in una decina di giorni riesco a proporre uno sketch credibile.

L’ultimo in ordine di tempo è stato Chef Borghese, su cui ha calcato la mano col suo lato di “tombeur de femmes”.

Il fascino esercitato da Borghese sul pubblico femminile è cosa nota. Ha una naturale eleganza nell’essere piacione, una propensione molto forte che non nasconde. Nel contempo, sa essere autentico e genuino nel dialogare con chi lo ascolta. Mi ha divertito partire da questo. Nelle prossime puntate svilupperò meglio il contesto del suo programma 4 Ristoranti, diventato per l’occasione 4 Buongustai.

Ha mai pensato di concentrarsi anche sui politici, virando sulla satira della contingenza?

La rappresentazione della politica non mi attira più di tanto. Forse perché troppo legata alla contingenza. Non mi considero un imitatore tout-court, ma un inventore di personaggi. Per certi versi, poi, il politico, specie se disonesto, ti costringe a insistere sempre su tratti noti, come per esempio la sua fallacia.

Al mestiere di comico è approdato per scelta di lungo corso o è stata un’illuminazione?

Desideravo far questo lavoro fin da quando ero piccolo. Mi divertiva fare battute per attirare l’attenzione e verificare la reazione della gente. Mi sono laureato in Giurisprudenza ma ho frequentato anche una scuola di scrittura, a Roma, specializzata in linguaggi della comicità. Ho imparato come si scrive un monologo, come si confezionano dei testi. E ho iniziato ad esibirmi in qualche pub.

Il passaggio alla tv quando è avvenuto?

Durante uno dei miei primi spettacoli, sono stato notato da Sabina Guzzanti, che mi ha voluto a Un, due, tre stella. Una palestra utile soprattutto per padroneggiare la diretta tv, che ha dinamiche ben precise. Poi ho conosciuto Caterina Guzzanti, con cui ho collaborato a La prova dell’otto. E ho realizzato la webserie Esami, ottenendo riconoscimenti lusinghieri.

Ecco. Una webserie. Sarebbe corretto affermare che, oggi, il web, nel lanciare un esordiente, prende il posto dei cabaret periferici e fumosi di una volta?

Il web offre possibilità a tutti, è un trampolino utilissimo per un esordiente. Ma è ancora poco chiaro quale sia il modo corretto di sfruttarne il potenziale. Soprattutto perché la fortuna immediata con la rete può tradire, non traducendosi per forza in fortuna di carriera. La forza di un comico sta nel sapersi declinare su piattaforme diverse. Ho sempre provato a farlo, partendo dalla tv, arrivando alla radio e proseguendo su internet.

Ha citato Verdone e Guzzanti. Altri modelli di riferimento?

Antonio Rezza. Antonio Albanese. Mi diverto anche guardando Rick Gervais, Bill Hicks.

Un comico nel privato è davvero malinconico e scorbutico come si dice?

Dipende dall’aspettativa che si ha su di lui quando lo si incontra dal vivo. Se lo incontri in fila alle poste, può essere che sia scorbutico (ride, ndr). In generale, la componente riflessiva di un comico è sempre presente. Dunque direi che è introspettivo. Il nostro è un mestiere in cui ci si porta il lavoro a casa. Gli spunti di riflessione possono saltar fuori all’improvviso, dalla semplice osservazione di una situazione.

Ma è anche narcisista.

Quello sì. Altrimenti non salirebbe su un palco cercando di catturare l’attenzione di un pubblico.

E quando l’attenzione del pubblico viene meno?

Ricordo uno dei miei primi spettacoli. Ero a una sagra di paese. Alla fine dello show, ad ascoltarmi era rimasto soltanto il fonico. A quel punto non puoi far altro che sdrammatizzare: cercando di far ridere almeno l’unico che è costretto a starti a sentire.

Se, ottenendo un riscontro crescente, le affibbiassero l’etichetta di nazionalpopolare, si offenderebbe?

Certo che no. La comicità deve arrivare al più ampio numero possibile di persone. Non necessariamente a tutti, beninteso. Rifugiarsi nella nicchia sarebbe un peccato, ma lo sarebbe anche cedere al diktat dell’assoluto.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Edoardo Ferrario)