Pubblicato il 11/11/2016, 13:33 | Scritto da La Redazione
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Mika: Vi racconto la storia incredibile della mia famiglia. E capirete chi sono

Mika: “Ora voglio un Nobel per la mia generazione”

Rassegna stampa: Sette, pagina 16, di Edoardo Vigna.

In tv il suo nuovo one man show, “Stasera CasaMika”: “La mia chiave è la tenerezza. Dylan lo merita, è un artista “popolare”, proprio come Dario Fo. Spero che un giorno tocchi anche a uno di noi”, dice la popstar Mika. Che si racconta, dalla passione per Fonzie alle storie di famiglia che hanno fatto nascere il suo concetto di “casa”.

Non c’è verso di farlo stare fermo. Vorrebbe andare dritto sul palcoscenico degli studi tv, ma è vietato, ci sono dei controlli. Lui freme: siamo nel mezzo delle prove del suo one man show che andrà in onda in quattro serate su Rai 2 dal 1,5 novembre. «Ciao Mika, come stai?». «Io bene, tu?». A ogni angolo degli studi Rai di via Mecenate, a Milano, è tutto un salutarlo. Operai, orchestrali che arrivano alla spicciolata per le prove, tecnici. Lui ha un sorriso per ognuno. «La mia casa vera non è a Londra (dove è basato anche il compagno Andreas, ndr), e non è neppure il palco: da 12 anni è il backstage, proprio come questo, con il pavimento brutto, i muri bianchi, il tetto industriale». Indica il corridoio dove, su due vecchie poltroncine nere, siamo seduti: sembra un po’ quello spoglio e lugubre del film Shining di Kubrick. «Invece è qui che nascono le idee le loro provocazioni che trasformano lo spazio intorno a noi in qualsiasi cosa vogliamo». Intercetta un altro assistente: «Posso mostrare la scenografia?». Freme. «No, ti avvisiamo noi».

Per preparare Stasera CasaMika, lo spettacolo che lo riporta in tv dopo il trionfo delle tre stagioni da giudice di X Factor, ci ha messo solo tre mesi («Di solito ci vorrebbe un anno»). E sta vivendo tutto come fosse davvero “casa” sua: ha coinvolto la mamma Joannie e due sorelle, ti elenca i nomi di autori («Tiziana Martinengo, che ha lavorato per 26 anni con Mike Buongiorno, Ivan Cotroneo, Giulio Mazzoleni) e collaboratori come noi spuntiamo la lista con i nomi di zii e cugini da invitare alla cena di Natale. Ci alziamo dalle poltroncine, di corsa entriamo nella sartoria: «Ciao ragazze! Questa è la stanza più importante», dice squillante. Afferra un costume di scena dei ballerini: una semplice tuta da lavoro rosa. «Non voglio che sembrino troppo fashion, fanno parte della fantasia e della “surrealità” di questa casa. E poi la loro deve essere una gestualità iconica. Molto Anni 50». (Alza le braccia, le allarga lentamente, le intreccia come nel balletto che immagina in scena).

Ha a che fare con il tuo modello di televisione?

«Certo, è a quell’epoca che mi rifaccio. Al periodo d’oro del Dopoguerra, quando la tv rappresentò una svolta talmente enorme che artisti d’ogni campo dalle firme dell’alta moda ai grandi coreografi e ai designer si ritrovarono insieme in un format popolare e un’atmosfera d’ottimismo».

A che spettacoli stai pensando, in particolare?

«Ho visto gli show dei Carpentier, in Francia, specialisti di sketch, anche musicali. Straordinari. Facevano ridere, ma con tanta tenerezza. Voglio ricalcare quel tipo di humour».

La tenerezza è la chiave.

«È essenziale. Con la tenerezza si può fare tutto. Ci si può divertire, ma si può anche parlare di sesso, di politica, di cose banali e di cose serie. E poi penso agli show di quegli anni con Mina, con Celentano, nei grandi studi tv. Ma anche agli special di Frank Sinatra e di Elvis Presley. Mi affascina anche la profondità che i designer riuscivano a dare alla scena. Ne ho voluta tantissima per coinvolgere la gente da casa. il modello è la “sequenza dei sogni”, il balletto di Gene Kelly in Singin’ in the rain».

Che tv guardavi da piccolo, in Francia e poi a Londra?

«Di sicuro non mi piacevano i talk! Piuttosto quella che mi faceva sognare d’essere in onda. Per esempio i programmi musicali. E poi le sit-com: volevo trovarmi in mezzo a loro, sul divano…».

Qualche serie tv in particolare?

«Quelle americane, soprattutto. Ricordi Roseanne Barr di Roseanna (da noi andava in onda con il titolo Pappa e ciccia, ndr)? L’amavo! E poi naturalmente Happy Days».

Ti piaceva più Fonzie o Rlchie Cunningham? Ti sei ispirato anche alla loro serie?

«Fonzie. Ma a dire il vero, non ho pensato a loro. Però nello show ci sono dei “personaggi” che ritornano, modello “sitcom”, come Sarah Felberbaum, che fa la mia coinquilina, e Virginia (Raffaele, ndr) che è la vicina di casa».

(Non si può ancora andare, ma Mika non resiste: si alza e mi porta a dare una sbirciatina di nascosto allo studio). E oggi, nella tua vera casa, a Londra, che tv segui?

«Quella popolare, ma di un certo tipo: su Channel 4 c’è uno show che si chiama Gogglebox, in cui hanno messo delle telecamere di fronte alle persone, sulla loro tv. Guardano programmi che non ho mai visto in vita mia, ma così puoi vederli attraverso i loro occhi. Mi piace da morire, questo collegamento umano che si crea con persone vere che dimenticano d’essere osservate: alcune bevono tè, c’è chi azzanna la pizza, chi accarezza il gatto. È una tv morbida, autentica. Oppure programmi tosti tipo Newsnight, (l’approfondimento della Bbc, ndr), odio invece la ripetitività delle news: non ti raccontano in profondità le notizie ma ti aggrediscono, e continuano a farlo ripetendole di ora in ora».

Come ti sorprenderebbe una telecamera nascosta?

«Sul divano come tutti, ma sempre vestito bene. Non capisco le persone che guardano la tv in mutande: mi sentirei a disagio. E non l’accendo mai in camera da letto: non mi fa dormire».

Due anni di X Factor: che cosa ti è piaciuto e che cosa no?

«Ho capito è che le cose più naturali, le più facili da comunicare, sono quelle che rimangono nella gente. Non bisogna mai cercare di giocare, di manipolare. Alla fine, conta fare qualcosa di bello, non controllare. E loro lo sanno fare bene».

Che consiglio puoi dare ai nuovi giudici?

«La cosa bella di come io sono stato gestito a X Factor è che non sono stato gestito: ho potuto rimanere me stesso. Ecco, rimanete voi stessi. Anche qui, a Stasera CasaMika, cerco di farlo. Nelle prove correggo gli errori del mio italiano ma so che, quando arriverà il pubblico vero, e inizierò a parlare con loro veramente, invece di “far finta” di parlare, anche gli errori vanno bene, perché sono io. Non voglio fingere, non sono un presentatore. Quelli bravi ci sono già: non ce n’è migliori di Ale Cattelan, di Fazio, di Fiorello. Io resto un cantante, un provocatore di sogni».

Oggi tutti lamentano il fatto che gli artisti emergono soprattutto con i talent. Perché ce l’hanno tutti con i talent?

«E che cosa è Sanremo? Cos’è Eurovision? Cos’era il Broadway Circuit? E prima di questo il Vaudeville Circuit, e prima ancora lo Yiddish Circuit (gli spettacoli che un secolo fa giravano per i teatri di New York, ndr)? In quelle esibizioni c’erano sempre competizioni fra artisti. E anche allora, a fare la differenza, era il racconto di piccole storie sugli artisti. È una tradizione vecchia: è ed era il modo di coinvolgere persone che non si conoscono. La stessa specie umana, in fondo, s’è elevata sulle altre basandosi sulla capacità di condividere le idee e le piccole storie. Il “gossip”. Perché con le piccole storie, si formano le grandi storie. Si crea quel collegamento fra di noi che produce la Storia. Però…».

C’è sempre un però…

«Sì. L’aggressività di un talent, il modo di selezionare gli artisti e le persone, è pericoloso. Perché la vita non è un talent. L’amore non è Tinder (il social d’incontri, ndr): può venire da lì, ma nella vita capita che le cose non si scelgano. Il rischio è che questo approccio faccia pensare il contrario. Che basti un “mi piace” o un “non mi piace”. Invece non puoi controllare tutto. Io non ho scelto che la musica entrasse nella mia vita. È arrivata. Anche il mio problema con la lingua (la dislessia, ndr) di quando ero ragazzo: sono riuscito a trasformarlo in un punto di forza, ma non lo controllavo. E poi, questo è importante, non si deve giudicare: io, nella mia vita, cerco di non giudicare mai».

Poche settimane fa un “super-talent”, diciamo così, ha premiato con il Nobel Bob Dylan. Che cosa hai pensato?

«È stato un momento particolare: la notizia è arrivata con quella della scomparsa di Dario Fo (che, come Mika ha già raccontato, è stato una delle sue fonti di ispirazione fin da ragazzo, ndr). Quando Fo vinse 20 anni fa provocò una discussione internazionale. Il maestro dell’assurdità, uno scrittore che ha usato il grammelot, un discorso che non si sviluppava con le parole convenzionali ma con suoni, versi, onomatopee… Però lui era un provocatore, un comunicatore di idee. Proprio come Dylan, che ha la capacità di lanciare un’immagine, con le parole, con un gesto artistico la melodia mescolata con l’immagine in un linguaggio semplice e però tanto ricco che ha ripercussione in tutto il mondo, come un’onda che non muore mai. È un potere. Sono stato contento. Bob Dylan è popolare. Lo è sempre stato. Anche il fatto che ci sia una “mitologia” intorno a lui che lo racconta come paranoide e antipatico è un segno della sua natura “popolare”. E in fondo, mi piace anche perché se un artista folk può vincere un premio così alto, nel futuro potrebbe esserci anche qualcuno della nostra generazione che potrebbe farlo ».

Ti piacerebbe essere lui?

«Ma va! Io non scrivo così, non c’è paragone, il mio linguaggio mi serve a esprimere tutte le cose che faccio e ciò che sono, non soltanto nelle parole delle canzoni».

La “mitologia”, come la chiami tu, è al centro, fondamento di tante cose. Anche del sentimento di “casa”.

«La “mitologia” è una delle cose più importanti. I racconti, le chiacchiere, le onde di storie sono ciò che riunisce».

Chi raccontava a te, le storie della tua famiglia?

«Tutti. Noi siamo una famiglia che per certi aspetti è tradizionale, per altri la più alternativa che esista. Si discute sempre, e c’è sempre chi riferisce una versione della storia di un antenato e un altro che oppone un’altra versione».

Puoi fare un esempio?

«C’è chi è sicuro che mio nonno sia partito da Damasco su un asino. Altri invece sono altrettanto certi che avesse pagato un amico perché lo portasse via con una Land Rover dell’esercito. Chissà… La mitologia di questo nonno che non ho mai conosciuto è molto presente».

E che cosa racconta ancora?

«Che alla fine lui è arrivato a Ellis Island, e che in America è diventato il ragazzino delle consegne di un’azienda di tessuti e così via, fino a quando -fast forward (avanti veloce, ndr) – 30 anni è arrivato a essere proprietario di varie fabbriche in Cina. Un giorno, sua sorella aveva deciso che doveva sposarsi e gli aveva trovato una bella ragazza, perfetta per lui, a Beirut (dove viveva una parte della famiglia, ndr). Lui torna in Libano per le presentazioni ufficiali ma alla festa di fidanzamento vede una ragazza sulla spiaggia che gioca con le sue sorelle. Si avvicina per conoscerla e poco dopo torna dal prete e gli chiede di cambiare tutto. Aveva deciso di sposare quella appena conosciuta, che aveva 16 anni, moltissimi meno di mio nonno!».

Niente male, come mitologia familiare.

«Non è finita. Lei, che non possedeva nulla, gli dice: io non voglio sposarti, ma posso farlo solo se tu porti con noi in America tutte le mie sorelle e i miei fratelli. Così lui le ha risposto: vieni in America sei mesi, se va tutto bene fra noi, allora ci sposiamo e portiamo tutti con noi. E così è andata… Ecco, questa è la mia famiglia, questa è la mia casa. Se conto i miei zii, le mie zie e i miei primi cugini, ogni volta che ci ritroviamo convergiamo da 22 Paesi diversi. Dunque, l’unica cosa che può riunire tutta questa gente è la mitologia: le storie del nonno e della nonna materna, quelle di mio padre, che è nato a Gerusalemme, con una mamma inglese e un papà americano, poi è cresciuto ragazzino al Cairo…».

Anche tua mamma collabora con te in questo show.

«Sta lavorando ai miei costumi, tutti disegnati dalla maison Valentino. Ti faccio vedere. Qualcuno mi apre il camerino?». (Dentro, Mika comincia a tirar fuori le grucce con ciò che indosserà: «Ecco il pigiama, le magliette, le giacche, la sciarpa». Un incredibile guardaroba decorato e personalizzato).

Sei libanese e cittadino del mondo. Mai sentito in esilio?

«Mai. Però ci sono persone che hanno tutto eppure ci si sentono. L’esilio è la mancanza di opportunità e di libertà. È una cosa potente e pericolosa. Quando non c’è comunità, ti senti in esilio. A Glasgow, una situazione che mi è capitato di studiare, i vecchi mi dicevano che il giorno in cui erano stati buttati fuori dalle loro case trasferiti in questi palazzoni di periferia anni 60, si sono sentiti in un “deserto con le finestre”».

Sei anche andato, con l’agenzia Onu per i rifugiati, tra i profughi siriani ormai senza una casa, nei campi del tuo Libano.

«Lì ho potuto “umanizzare un po’ di più una crisi che è ormai diventata tutta politica e numeri. L’umanità è la realtà. Come possiamo capire la crisi dei rifugiati in Europa se non vediamo quale crisi c’è a casa loro? La verità è che più di un terzo dell’umanità da tanti anni vive dentro un qualche conflitto, e i nostri militari, europei e americani, sono spesso coinvolti. È una cosa vera, non un film. E dobbiamo capire che questa guerra produce conseguenze anche se è lontana da casa nostra: è sempre accaduto, dagli anni del colonialismo, per esempio in Francia negli anni so con la guerra d’Algeria. Ci sono i giovani, che per gran parte della loro vita sono stati in una guerra, e hanno formato i ricordi e l’idea del mondo che condizioneranno la loro vita nella precarietà e nella povertà. Ragazzi di 12-13 anni, che non vanno a scuola da sei o sette. È un’intera generazione mancata. Però la mitologia della casa per questi rifugiati resta sempre fortissima anche nelle famiglie più semplici, l’hanno portata con sé, insieme con la voglia di tornare indietro».

 

(Nella foto Mika)