Pubblicato il 27/09/2016, 18:32 | Scritto da Gabriele Gambini
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I registi del doc su Amanda Knox: Indaghiamo gli aspetti umani della vicenda

Dicono Blackhurst e McGinn : “Non vogliamo raccontare l’omicidio ricercando un colpevole, ma capire il perché di tanta attenzione mediatica”.

Un po’ Pasticciaccio Brutto della via Merulana, senza la prosa di Carlo Emilio Gadda. Sostituita dalla vulgata, paesana e cialtrona, della gogna mediatica. L’omicidio Meredith Kercher ha fagocitato l’attenzione dei cronisti di nera dal 2007, scatenando quasi una collisione diplomatica: sull’ingarbugliata vicenda che ha visto tra i principali indiziati di colpevolezza la studentessa americana dagli occhi di ghiaccio Amanda Knox e il suo boyfriend dell’epoca, oggi opinionista tv, Raffaele Sollecito, hanno speso parole persino Donald Trump e Hilary Clinton. Ben prima della loro designazione a competitor per la Casa Bianca. Ben dopo le tante materne attenzioni che gli USA hanno da sempre riservato al territorio italiano quando si tratta di difendere le loro prerogative. Il delitto di Perugia sembra uscito dalla penna di Bret Easton Ellis, per la portata narrativa di prurigine post-adolescenziale, sangue e normalità solo apparente. Tra condanne, differenti gradi di giudizio, capovolgimenti di fronte in appello, dubbi sulla precisione dell’iter procedurale d’indagine, proteste di piazza, resta in mano l’assoluzione della Knox e di Sollecito, la condanna di Rudy Guede, ma non i motivi che li hanno fatti diventare, loro malgrado o con la loro collaborazione, personaggi da copertina dei tabloid internazionali.

A indagarne le ragioni, prendendo le distanze da giudizi morali, ci pensano due filmaker americani, Rod Blackhurst e Brian McGinn. Con il loro documentario, Amanda Knox, arrivano su Netflix dal 30 settembre, oltre che al Toronto Film Festival. I due ci presentano un lavoro rigoroso, iniziato nel 2011, alla fine del primo appello. Ricostruiscono l’intera vicenda partendo dalla chiamata alla caserma dei carabinieri di Perugia nel giorno del fattaccio, attingendo a piene mani dagli archivi dei media italiani. Aggiungendo però elementi nuovi. Un’intervista ad Amanda e a Sollecito, avvicinati, dicono Blackhurst e McGinn «Dopo 2 anni di totale silenzio da parte di Amanda. Lei stessa ha compreso la nostra intenzione di non prendere posizione sulla vicenda, ma di far luce sugli aspetti umani dei suoi protagonisti». Inedite dichiarazioni di Giuliano Mignini, pubblico ministero incaricato delle indagini, appassionato di Sherlock Holmes ma più simile, per attitudine investigativa, all’ispettore Lestrade,«Che ha voluto mettere a fuoco i dettagli più importanti del suo percorso d’inchiesta, permettendoci anche di raccontare come si svolge un iter giudiziario in Italia. I tre gradi di giudizio e il capovolgimento delle sentenze sono elementi che hanno destato parecchio stupore nell’opinione pubblica americana, abituata a un sistema differente». Oltre alla testimonianza di Nick Pisa, cronista britannico incaricato di seguire la vicenda per il Daily Mail,  archetipo del giornalista sciacallo pronto a vendere la dentiera della nonna pur di conquistare una prima pagina.

«Quando abbiamo iniziato a pensare al documentario, siamo partiti da un assunto: non ci interessava raccontare l’omicidio ricercando un colpevole vero o presunto. Non era questo il nostro scopo», dicono i due registi. «Volevamo far emergere il tessuto umano della vicenda, la tendenza alla speculazione, alla creazione di personaggi ad uso e consumo delle copertine internazionali. Cercando di capire il perché di tanto interesse attorno a ciò». E se il loro passaporto americano, come quello dell’ammaliatrice Knox, potrebbe, sulle prime, far pensare a qualche presa di posizione partigiana, i due sgombrano il campo dagli equivoci: «La nostra nazionalità è rimasta fuori dalla porta, il fatto poi di aver avuto un produttore danese contribuisce a fugare ogni dubbio». Del resto, dubbi e certezze restano, in soggettiva, nella mente del pubblico: «La Cassazione ha definito che le prove non erano state raccolte in modo adeguato, ma, ribadiamo, cercare un colpevole non era il nostro scopo. A far quello, ci hanno pensato le tv di tutto il mondo, che trasmettevano però sempre le stesse cose: un gruppo di persone in uno studio, intente a dare delle opinioni». L’obiettivo di Blackhurst e McGinn  pare raggiunto. Con una concatenazione fluida, il docu-film si affranca dalle ricostruzioni in stile Plastico di Vespa, cerca di fornire delle risposte al di fuori del terreno d’indagine, e finisce inevitabilmente per alimentare ulteriori domande. Che riguardano noi e la nostra percezione del male come evento morboso. Qualcuno, questo documentario, lo definirebbe “caleidoscopico”.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Amanda Knox)