Pubblicato il 23/05/2016, 19:35 | Scritto da Gabriele Gambini
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Carmelo Abbate: Racconto storie che potrebbero riguardare ognuno di noi

Carmelo Abbate: Racconto storie che potrebbero riguardare ognuno di noi
Il giornalista conduce in seconda serata su Rete 4, "Labirinto, Storie di ordinaria in-giustizia", in cui racconta da vicino il vissuto di vittime di errori giudiziari e di eccessi coercitivi.

Dice il giornalista: “Raccontare casi di malagiustizia non significa delegittimare il lavoro di chi svolge le indagini, al contrario”

Rete 4 si appropria di tinte kafkiane con il debutto di Labirinto, storie di ordinaria in-giustizia (ogni giovedì, 6 puntate in seconda serata), contenitore d’inchiesta – senza studio, senza talk, senza opinionisti – su modello dei documentari americani. Il giornalista e autore Carmelo Abbate incontra, di puntata in puntata, vittime di eclatanti errori giudiziari, o di eccesso di zelo manettaro figlio di incomprensioni e false testimonianze. Dal caso di Giuseppe Gulotta, rivelatosi innocente dopo 22 anni di carcere, a quello di Gabriele Cagliari, presidente ENI suicidatosi a San Vittore in piena era Tangentopoli in circostanze non del tutto chiarite. Fino al controverso cold case di Fausta Bonino, ribattezzata “l’infermiera killer” di Piombino, rilasciata dopo l’ordinanza di arresto.

Se il punto di vista delle vittime, raccontate nel loro percorso umano indugiando su particolari inediti, è al centro della narrazione, Abbate sgombra il campo dagli equivoci potenziali del sottotesto: «Non facciamo una sorta di controprocesso. Tanto meno, mettiamo sotto accusa l’operato della magistratura. L’intento è raccontare alcuni casi della contemporaneità. Facendo toccare con mano al pubblico che cosa produce nella vita di una persona un’inchiesta, quando non è coltivata con la dovuta prudenza, con il costume del dubbio, e quando si calca troppo la mano sulla gogna mediatica».

Nella presentazione del programma si parla di “primi piani, espressioni, dettagli” dei protagonisti, quasi che il vostro intento sia indagarne le prospettive emozionali.

Ci interessa capire che cosa rimane sotto la cenere dopo che la fiammata giudiziaria iniziale si è spenta e dopo che il processo mediatico, fatto di brandelli di intercettazioni pubblicate sui quotidiani, di dettagli non del tutto chiariti e di errori procedurali, ha consegnato verdetti controversi. Entrando nella profondità delle vicende personali dei protagonisti. Avvalendoci di documenti e testimonianze inedite. Senza dare giudizi, limitandoci a raccontare una storia con una valenza precisa: apparentemente riguarda gli altri, ma potrebbe, senza preavviso, riguardare ognuno di noi.

Qualcuna delle storie raccontate ha un valore simbolico più forte di altre?

Sono state tutte selezionate secondo un criterio di contemporaneità e di importanza mediatica. La prima è il caso di Giuseppe Gulotta. Ha trascorso 22 anni in carcere sapendo di essere del tutto innocente dalle accuse formulate ai suoi danni. Mentre lo stavo intervistando, ironia della sorte, è arrivata la telefonata dell’avvocato che gli comunicava il risarcimento ottenuto: 6 milioni di euro. Una bella cifra, ma nessuno la baratterebbe con anni di privazione della libertà.

La seconda?

Il caso controverso di Gabriele Cagliari, perché ci fornisce spunti differenti, grazie alle testimonianze del figlio. Cagliari entra nel cuore del problema trattato: un uomo probabilmente colpevole, da presidente Eni in piena era Tangentopoli, di essere stato colluso con un sistema di corruzione rodata, si è suicidato a San Vittore in circostanze mai chiarite, dopo 4 mesi di carcere preventivo. Proprio il tema della carcerazione preventiva e dei metodi coercitivi, in questo caso, diventa protagonista.

Foga manettara da un lato, garantismo a tutti i costi dall’altro, sono bandiere agitate da ogni parte politica a seconda della convenienza. Se non si trova la chiave giusta del racconto, non si corre il rischio di delegittimare il lavoro di chi svolge le indagini e la sua indipendenza?

Attenzione. La magistratura più degli altri ha interesse che la giustizia sia esercitata correttamente, secondo principi garantisti. Il programma non è contro i giudici, semmai il contrario. Vuole raccontare uno spaccato dell’Italia senza pregiudizi ideologici o prese di posizione politiche. Per questo abbiamo evitato il formato talk show e la presenza di uno studio con opinionisti.

Si potrebbe osservare che, di questi tempi, proprio l’inflazione del formato talk show abbia contribuito ad alimentare alcune forme populiste di gogna.

Noi giornalisti, parlo come categoria, abbiamo delle responsabilità, quando alimentiamo la cosiddetta gogna mediatica tramite pubblicazione parziale e non circostanziata di intercettazioni, indirizzando l’opinione pubblica senza un’effettiva conclusione di un’inchiesta, a prescindere dal suo ambito. Ma addossare la responsabilità ai talk show sarebbe una mossa ponziopilatesca. Talvolta sono i quotidiani, tutti, più della tv, a calcare la mano su determinati aspetti dei casi trattati, anziché stingere le maglie per evitare condizionamenti.

C’è una ricetta per evitare i condizionamenti e raccontare al meglio un caso di giudiziaria?

Non puntare il dito contro nessuno, garantire indagini indipendenti senza andare o a braccetto o contro chi le svolge, trovare l’equilibrio nel racconto dando spazio a tutte le parti coinvolte. Non voglio tirare l’acqua al mio mulino, ma è ciò che cerca di fare Quarto Grado, con buoni risultati.

Non vi occuperete solo di casi d’archivio: la vicenda dell’infermiera Fausta Bonino è tuttora in evoluzione, e la sua scarcerazione potrebbe non essere sinonimo di innocenza.

Il caso di Fausta Bonino è l’esempio di quanto detto fino a ora. Raccontandolo, non vogliamo anticipare le indagini, ma mostrare come l’accusa nei confronti della donna non avesse ancora i presupposti necessari per affibbiare un marchio di colpevolezza. Si parla di una persona dapprima dipinta da tutti come indefessa stakanovista, poi, di colpo, come serial killer. Nel dubbio, meglio fare un passo indietro, usare cautela e limitarsi a raccontare i fatti. Cosa che proveremo a fare, senza prese di posizione.

Ha pensato a un target di pubblico ideale per il programma?

Mia mamma. Che significa l’uomo della strada, chi non padroneggia mezzi tecnici sofisticati per approcciarsi alle inchieste. Spero di aver confezionato un lavoro semplice e chiaro.

 

Gabriele Gambini
(Nella foto Carmelo Abbate)