Pubblicato il 13/10/2015, 17:33 | Scritto da Gabriele Gambini

Giorgio Verdelli, autore di ‘Unici’: “Il montaggio sta alla tv come un buon arrangiamento sta a un disco. Il segreto è tutto lì”

Diceva il sociologo Marshall McLuhan: il medium è il messaggio. Puntualizza Giorgio Verdelli, ideatore e autore di Unici (da mercoledì 14 ottobre in seconda serata su Rai 2 per tre settimane e a dicembre in prima serata): il medium è il montaggio. Quando il montaggio è la chiave per far coesistere il linguaggio della musica con quello della tv e la musica diventa racconto dei suoi protagonisti. È il segreto dell’efficacia del suo programma: bilanciare il rigore documentaristico col vigore nazionalpopolare. Presentando gli artisti sotto luci inedite, grazie a spunti e interventi di chi li ha conosciuti, illuminandone i coni d’ombra. Si comincia con Caterina Caselli, Miguel Bosé e i Negramaro. Si prosegue a dicembre con Ramazzotti, Bocelli e Pavarotti.

La musica in tv non funziona più come un tempo e può essere declinata solo col linguaggio dei talent o dei grandi eventi live, dicevano alcuni. Invece, solo nella seconda serata del mercoledì, c’è Unici su Rai2 e c’è Fronte del Palco su Italia 1.

Ne sono contento. Su Rete 4 in seconda serata ci sarà anche uno speciale su Gigi D’Alessio dalla Terra dei Fuochi. Non so se si tratti di una pura combinazione o di una strategia precisa, ma va bene così. Significa che la musica ha un appeal. In parte, anche perché si allinea alla nuova dimensione etica televisiva.

Dimensione etica?

Garantisce costi produttivi bassi. Beninteso, costi bassi non significa fare una tv qualitativamente low cost.

La peculiarità di Unici sta nel partire dal racconto dei protagonisti, più che dalle loro esibizioni.

La tecnica del racconto documentaristico mixato al pop cattura l’attenzione del pubblico. Mi viene in mente una bellssima battuta di Giancarlo Bigazzi degli Squallor: “Per ascoltare un album intero, dall’inizio alla fine senza pause, ci vuole un disoccupato”. A meno che l’album non sia dei Beatles, dei Pink Floyd o di Guccini, aggiungo io.

Dunque meno live, più lati inediti dell’artista.

Il racconto con contaminazioni e contributi diretti dell’artista garantisce spunti diversi rispetto al mero concerto e si presta a quell’adattabilità web indispensabile in un’era multi-piattaforma.

Caselli, Bosè, Negramaro, da ottobre in seconda serata. Ramazzotti, Bocelli e Pavarotti, a dicembre in prima serata. Una collocazione oraria fluttuante vi destabilizza?

Non direi. Fare solo il prime time è una bella responsabilità e non si presta a tutti gli artisti raccontati, benché sia convinto che un personaggio come Caterina Caselli possa funzionare benissimo anche in orario privilegiato. Ci interessa collaudare la seconda serata, perché riteniamo che Unici abbia la potenzialità per appassionare gli addetti ai lavori, ma anche il target tipico della generalista.

Il segreto di un racconto documentaristico efficace.

Il montaggio. Sta alla tv come l’arrangiamento sta alla buona riuscita di un disco. Ogni puntata di Unici è una storia a sé, profilata sull’artista. La tecnica usata per approcciare Caterina Caselli non è quella usata con i Negramaro. È importante estrapolare l’essenza di una lunga intervista, rielaborandola su pochi minuti decisivi. Fare in modo che i parlati del programma stiano sul tempo musicale, per garantire al pubblico un flusso continuo, un ritmo. Lo spettatore medio non fa caso a questi accorgimenti, ma la sua attenzione rimane desta.

Ha avuto qualche maestro, nel comprendere questi aspetti?

Faccio mia la lezione del grande Antonello Falqui: “La tv è ciò che si vede”.

Qualche anticipazione sulla puntata di domani, con Caterina Caselli.

Diverse chicche, come il rapporto di Caterina con la musica nera, la sua immersione nell’arte di Ray Charles o James Brown. Una leva per raccontare anche la storia di un determinato periodo musicale, comprenderne la portata avuta sulle generazioni successive. I suoi inizi. I suoi piccoli “furti” artistici, durante gli anni della gavetta, che le sono serviti ad affinare le sue peculiarità.

Poi Bosè.

Parla cinque lingue. Con lui discorri di biologia marina o di arte in una stessa conversazione. Mi ha spiegato che deve gestire due aspetti di sé: c’è Miguel, una persona normalissima, e c’è Bosè, il lato ingovernabile a cui devi prestare attenzione. Alla fine, è grazie a Bosè, che paga le fatture. Con lui, ci saranno Maria De Filippi, Jovanotti, Laura Pausini, Luca Carboni, Red Canzian. Sveleremo che la prima canzone da lui incisa è stata la cover spagnola di Linda dei Pooh.

Quanto è difficile esulare dai toni celebrativi per mettere in mostra i coni d’ombra di un protagonista?

La puntata di Caterina Caselli termina con un suo momento di forte commozione. Sulle prime, lei ha fatto un po’ di resistenza nel permetterci di mandarlo in onda. Poi ha accettato. Gli artisti hanno un forte ego, altrimenti non sarebbero tali. E’ importante imbastire la narrazione assieme a loro e non su di loro. La differenza sta tutta lì. Descrivendo anche dubbi e controversie con delicatezza. Senza cercare il sensazionalismo.

C’è un personaggio che le è risultato più difficile da raccontare rispetto ad altri?

In passato, Roberto Bolle. Questo perché io di balletto capisco quanto qualche conduttore televisivo capisce di musica…

Cioè non molto?

Non molto (ride, nda). Mi sono approcciato al suo mondo con lo spirito del neofita. Rimontando alcune sue prove con musiche scelte da me. Ho scelto di affiancare al Romeo e Giulietta musiche di Phil Collins. È rimasto impressionato. A New York, dove siamo stati suoi ospiti, ci siamo ritrovati a intervistare suoi amici come Michael Stipe dei Rem e Baz Luhrmann di Moulin Rouge. Persino Fabio Capello, che si trovava da quelle parti, ci ha avvicinato incuriosito. Si è creata una contaminazione di generi che ha reso la puntata molto sfaccettata.

Il merito di un riscontro positivo è dettato più dal personaggio o dal modo in cui viene presentato?

Quando Unici è cominciato, si chiamava La Musica sul 2. Nella prima puntata si parlava di Gianna Nannini. Andai a intervistare lo scultore e pittore Michelangelo Pistoletto, che con lei aveva fatto l’opera 2 Paradisi. Era un prime time, si temeva che un personaggio come Pistoletto, non proprio mainstream, sgonfiasse l’attenzione. Ma il suo carisma e il modo con cui l’abbiamo presentato hanno fatto reggere gli ascolti, che sono addirittura saliti. Qualcosa di analogo lo faremo con Bocelli: intervisteremo Mauro Malavasi, l’arrangiatore di Con te partirò, già attivo dietro a pezzi come Kalimba de Luna e Caruso. Mostrando il segreto dietro al confezionamento di hit immortali.

Dunque un occhio allo share lo si guarda sempre.

Sono un professionista e faccio questo mestiere, se dicessi che non guardo agli ascolti, sarei un bugiardo. Diversa cosa è farsi condizionare da essi a meri fini di produzione massificata. Trovo importante anche non trascurare la leggerezza nell’approccio al lavoro: stiamo facendo televisione, dopotutto. Non discutiamo dei massimi sistemi.

J-Ax in seconda serata Rai2, Fedez ed Emis Killa in tv sotto varie forme. Il linguaggio dei giovani attinge dall’hip-hop e l’hip-hop entra di prepotenza nel piccolo schermo.

Il linguaggio delle nuove generazioni è quello e parte dal web. Ma le nuove leve sono molto curiose, non si limitano a fruirne passivamente.

Vanno oltre il web?

Sta ritornando prepotentemente di moda l’acquisto dei dischi in vinile. Led Zeppelin e Doors stanno registrando picchi di vendita. Del resto, se non ci fosse stato Jim Morrison, non ci sarebbe stato J-Ax. Fermo restando che molte peculiarità dell’hip-hop erano già state sperimentate da Lou Reed, dai Talking Heads. Il segreto è presentare tutto nel modo giusto e cercare di narrarlo.

C’è chi dice che i talent show sviliscano parte di questo ragionamento.

Dipende da come vengono fatti. Alcuni cantanti usciti dai talent sono straordinari. Ma sono pochi quelli davvero destinati a durare.

Il talent è business.

Il talent è business e ha il merito di aver rivitalizzato la tv. Oggi forse si raschia un po’ il fondo del barile perché gli aspiranti concorrenti sono tantissimi e lo spazio per emergere è poco e standardizzato.

Standardizzato perché basato sulle medesime caratteristiche cercate nei personaggi?

Beh, sarei stato curioso di vedere il Vasco degli esordi alle prese con un talent show da concorrente…

Una curiosità. Lei come ha iniziato questo mestiere?

A scuola ero bravo in italiano. Avrei dovuto studiare scienze politiche. Mi si prospettava una carriera da diplomatico. Poi feci un concorso, si chiamava Un volto nuovo per gli anni ’80. Scelsero i primi tre classificati: Fazio, Chiambretti e Cecchi Paone. Io arrivai quarto.

Una sconfitta.

In giuria c’era Guido Sacerdote. Mi prese in disparte e mi disse: “Verdelli, sai fare troppe cose. Un conduttore che sa fare tutto, ce l’abbiamo già, si chiama Pippo Baudo”.

Voleva fare le scarpe a Baudo?

No. Infatti aggiunse: “Vuoi fare tv? Fai l’autore”.

Nei suoi progetti futuri, oltre a Unici, che cosa c’è?

A novembre uscirà il libro A noi ci piaceva il blues (Cooper), con la prefazione di Maurizio De Giovanni. Racconta la mia generazione, quella che ha preferito il vinile al piombo.

E in tv?

Un titolo ce l’ho già: Quasi Famosi. Raccontare i personaggi che non ce l’hanno fatta, che avrebbero potuto sfondare e non ci sono riusciti. Ma non con la tecnica di Meteore. Vorrei ispirarmi al documentario Sugar Man. Approcciare i personaggi passati nel dimenticatoio e trovare una chiave di lettura per spiegare il loro insuccesso.

La magia del perdente affascina sempre, dalla boxe alla musica.

I’m a looser, cantava John Lennon. Raccontare le sconfitte, significa attingere a piene mani dai lati oscuri.

Sarebbe un bel format.

No. Non mi piace la parola format. Abusata, oggi. Dà l’idea di un cibo precotto, massificato, declinabile sempre e comunque, alla ricerca del colpo di teatro. Preferisco definirmi un sarto e cucire su misura un abito di fronte al cliente del momento.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto