Pubblicato il 24/05/2013, 16:35 | Scritto da La Redazione

MICHELE D’ANCA: «AVREI POTUTO ESSERE IO “TANO CARIDDI” NE “LA PIOVRA”»

MICHELE D’ANCA: «AVREI POTUTO ESSERE IO “TANO CARIDDI” NE “LA PIOVRA”»
A colloquio con l’attore che oggi interpreta il ruolo di Sebastian Castelli in “Centovetrine”, soap opera di Canale 5: evoluzioni del personaggio, prospettive personali di carriera e qualche tuffo nel passato. In Centovetrine, Michele D’Anca è Sebastian Castelli, uomo d’affari con un passato in cui gli scrupoli se li mangiava manco fossero caramelle gommose. Oggi […]

A colloquio con l’attore che oggi interpreta il ruolo di Sebastian Castelli in “Centovetrine”, soap opera di Canale 5: evoluzioni del personaggio, prospettive personali di carriera e qualche tuffo nel passato.

In Centovetrine, Michele D’Anca è Sebastian Castelli, uomo d’affari con un passato in cui gli scrupoli se li mangiava manco fossero caramelle gommose. Oggi il suo personaggio si è evoluto, è cambiato «Per amore», ma conserva i suoi tratti distintivi: l’indole combattiva, la capacità di non arrendersi mai. «Un po’ come me», dice D’Anca, «Che nel mio mestiere non ho mai mollato, lottando molto per raggiungere i miei obiettivi. Facendo teatro, facendo tanta tv, conservando il sogno di fare più cinema sfondando la coltre di pregiudizi che esistono solo in Italia».
Voltandosi indietro, afferrando istantanee del suo passato, l’attore rievoca anche il momento in cui era stato scelto per interpretare il ruolo di cattivo ne La Piovra, quel leggendario Tano Cariddi che poi ebbe il volto di Remo Girone perché «Decisero di cambiare età al personaggio».
Lei è poliedrico e combattivo. Evidentemente la sua indole, oltre al talento di tutto il cast, ha fatto del bene a Centovetrine, che dal rischio chiusura ora sta attraversando un nuovo periodo felice.
«La produzione continua, nonostante i tagli e i ridimensionamenti effettuati, imposti dallo stato di crisi generale attuale. Gli ascolti però sono eccellenti, il pubblico ci sostiene, Publitalia ci crede e Mediaset ha deciso dunque di investire ancora sulla soap. Un’ulteriore stagione dovrebbe essere nei piani, e questo mi rende soddisfatto».
In tre anni e mezzo di permanenza nel cast, il personaggio di Sebastian Castelli ha subito evoluzioni davvero significative.
«Sebastian si è evoluto tantissimo. E’ uno dei personaggi più ricchi di sfaccettature di tutta la soap. Gli autori si sono divertiti a cucirmelo addosso, sfruttando vari aspetti del mio carattere, della mia fisicità. Il suo background è nebuloso: un trafficante d’armi, un boss, con tanti misteri alle spalle e diversi scheletri nell’armadio. Ha ingaggiato una battaglia senza esclusioni di colpi con Ettore Ferri (Roberto Alpi, nda), un vero e proprio scontro di potere. Ha vissuto una grande trasformazione psicologica. Momenti di grande introspezione quando l’alcolismo è diventato la sua dipendenza scacciacrisi. E’ stato in coma. Nelle puntate recenti, è al centro di un triangolo amoroso con Laura e Margot. Non scordando il ritorno di sua moglie Matilda. Forse un cliché sentimentale consolidato, che ha appassionato però il pubblico».
Sebastian ha dimostrato di voler cambiare vita.
«È stato l’amore, a spingerlo verso il cambiamento. Lui tiene molto ai valori genuini di base della vita, come il rapporto con la famiglia, con suo figlio Jacopo (Alex Belli, nda). Proprio lo sviluppo del suo rapporto con Jacopo sarà la trave portante per ulteriori evoluzioni della sua storia personale».
Qualcuno giungerà a minare la serenità apparentemente acquisita.
«Un nuovo personaggio si insinuerà nella vita di Sebastian, con il preciso intento di distruggerla. Sarà animato da un motivo molto forte e non sarà disposto a desistere».
Sebastian, uomo combattivo, con alcuni tratti cuciti addosso a Michele D’Anca. Un attore mette sempre qualcosa di suo quando interpreta un personaggio.
«Io dico sempre che nei personaggi interpretati, dell’attore c’è tutto e non c’è niente. Di sicuro, in Sebastian trovo molto vicino a me il temperamento, la capacità di giocare su intense corde emotive. La forza per combattere, per odiare se necessario, non rinunciando ai propri obiettivi».
Un attore deve combattere, per realizzarsi nel suo mestiere.
«Per il mio lavoro ho lottato molto e continuo a lottare anche oggi. L’arte dell’attore è l’arte della trasformazione. Quando ci si imbatte nella lunga serialità, nessuno conosce meglio dell’attore il personaggio interpretato. Diventa una vera e propria creazione personale da plasmare ciak dopo ciak».
Lei ha fatto tanta lunga serialità, fin dai suoi esordi televisivi.
«Ricordo con piacere i tempi di Ricominciare, soap Rai fortemente voluta da Agostino Saccà, che all’epoca aveva intuito quanto fosse importante per ampliare le prospettive di share fornendo un prodotto qualitativo. All’epoca, il nostro diretto concorrente era proprio Centovetrine ai suoi albori».
Il modo di intendere il lavoro sulla lunga serialità è cambiato, col tempo?
«Oggi i ritmi sono molto frenetici. Con la crisi si cerca di produrre di più spendendo di meno. Una soap è un’industria, si deve produrre ogni giorno. E non ci si può permettere di ridurre la qualità».
Riesaminando la sua carriera, è soddisfatto di ogni sua scelta?
«Fino a oggi sono soddisfatto di ciò che ho fatto. Ho iniziato con l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico, 4 anni di grande formazione. A quell’epoca i nomi emergenti si chiamavano Luca Zingaretti, Margherita Buy, Massimo Popolizio. A vent’anni ho avuto la fortuna di lavorare con il maestro Ronconi. Forse l’unico rimpianto è aver fatto solo teatro per i primi 14 anni di carriera, senza tentare prima la strada televisiva».
Un ricordo vivo delle sue prime esperienze tv?
«Fui scelto per interpretare il ruolo di Tano Cariddi ne La Piovra.  Poi la parte andò a Remo Girone, perché si decise di cambiare l’età del personaggio».
Avendo cominciato col teatro, ha assistito alla sua evoluzione. O involuzione.
«Ho avuto la fortuna di vivere gli ultimi vent’anni di una stagione in cui il teatro era ancora in grado di assorbire l’esperienza e la competenza di vecchi nobili teatranti. Oggi quel tipo di nobilitazione è più difficile. Mettere in piedi una tournèè seria, di un certo livello, comporta notevoli difficoltà».
Michele D’Anca ha sempre voluto fare l’attore?
«Sentivo che quella era la strada che volevo intraprendere nella mia vita. Certe sensazioni sono un’urgenza, non una scelta. Ho seguito il mio istinto. Ho vissuto periodi di difficoltà e ho saputo superarli. Non ho mai avuto “Piani B”, io non credo a quelle scappatoie. Nei mestieri artistici, pensare a delle alternative possibili significa non credere fino in fondo a ciò che stai facendo. Significa fornirti degli alibi».
Che cosa le piacerebbe fare, oggi come oggi, per raggiungere un nuovo traguardo professionale?
«A teatro vorrei mettere in scena un classico come l’Amleto. E poi, mi piacerebbe fare del cinema. In Italia i compartimenti stagni esistono. Il cinema è molto elitario, vige il pregiudizio sull’attore di fiction o di soap. Nei casting se provieni da una soap c’è chi storce il naso. E, intendiamoci, è una presunzione tipicamente italiana. Un retaggio culturale forse figlio del nostro passato. In altri Paesi, questo non accade, la poliedricità è favorita e incoraggiata».
In tv le piacerebbe affrontare altre esperienze?
«Una bella serie tv poliziesca, come mi è già capitato di fare in passato con Michele Soavi. Magari un ruolo da commissario di polizia. All’interno di una sceneggiatura fresca, densa di ritmo e di azione, una storia vera, sentita, con un linguaggio concreto e reale. Che sappia essere impegnata, senza scadere nella noia della retorica. Gli americani sono bravissimi a raccontare questo tipo di storie. Loro hanno produzioni faraoniche e attori bravissimi anche per i piccoli ruoli».
Per fare l’attore la fortuna conta?
«Contano il talento, la dedizione. E, certo, il trovarsi nel posto giusto al momento giusto».
Lei ha una nutrita esperienza anche come doppiatore. Un mestiere particolare, in cui conta saper vivere la vita di un altro che nel contempo sta vivendo quella di un altro ancora.
«Fare doppiaggio significa vivere nell’ombra, spesso in ambienti piccoli e umidi (ride, nda). Scherzo, in realtà ho deciso di farlo quando ho interrotto il teatro. Cercavo un lavoro che mi permettesse di coniugare prospettive di guadagno con la possibilità di lavorare nelle fiction. Così sono riuscito a entrare in questo mondo, all’apparenza molto chiuso e di nicchia. Mi ha aiutato ad affinare anche la mia tecnica recitativa».
Quale attore le piacerebbe doppiare?
«I miei attori preferiti. John Malkovich, Daniel Day Lewis. Benicio Del Toro. Xavier Bardem».

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Michele D’Anca)