Pubblicato il 13/11/2012, 17:33 | Scritto da La Redazione

AUDITEL E INVESTITORI PUBBLICITARI: CHI SONO E PERCHÈ NESSUNO HA MAI FATTO UN’INCHIESTA?

auditel

Il nostro blogger-verificatore, con l’aiuto di video d’epoca, si occupa del rapporto tra dati d’ascolto, broadcaster e clienti delle concessionarie di pubblicità. Intervistando Giuseppe Morici, capo del marketing di Barilla.

Centinaia di articoli e decine di inchieste e libri sono stati scritti sull’Auditel, il dispositivo infernale su cui si basa tutta l’industria televisiva italiana dal 1984, anno della sua fondazione. Partendo dalle definizioni più comuni – da quella ipocrita dei televisivi «è una semplice convenzione», a quella più sincera dei pubblicitari «è lo strumento che serve alle tv per vendere il pubblico agli inserzionisti» – nessuno sinora si è curiosamente mai azzardato a fare un’inchiesta su chi sono i mandanti dell’Auditel e spiegare come funziona realmente la filiera del prodotto televisivo. Documentare per esempio come – partendo da un detersivo, un’auto o un cellulare – si costruisce un programma ad hoc con il coinvolgimento nell’ordine di: cliente inserzionista, concessionaria, centro media, network e a seguire l’indotto tra esecutivi, creativi e consulenti delle varie società di produzione tv, agenzie di pubblicità e aziende di pr.

Si tratta forse della «madre di tutte le inchieste», che i vari Santoro, Iacona, Formigli, Le Iene, Striscia e persino la Gabanelli hanno solo sfiorato, occupandosene indirettamente quando hanno contestato alcune anomalie sul funzionamento dell’Auditel. Report lo fece alla fine degli anni ’90 in una puntata con protagonista una famiglia campione (qui il video), nello stesso periodo Striscia la notizia inviò il Gabibbo a stanare pensionati e massaie provvisti di meter. Ben documentati sono al riguardo anche diversi numeri del settimanale Cuore di metà anni ’90 e i libri di Giulio Gargia e Roberta Gisotti.

Tuttavia, nessuno ha mai indagato seriamente su quelli che reggono tutto il carrozzone, ovvero gli inserzionisti, una galassia di migliaia di aziende tra piccole, medie e grandi tra cui alcune nate dal nulla e diventate multinazionali, come quelle di Giovanni Rana e Paolo Rovagnati, fortemente debitori della forza persuasiva del medium televisivo. Sarebbe interessante interpellare loro e gli altri top spender per capire in base a quali criteri investono ogni anno tot soldi su quei canali, quotidiani e siti web.

Storicamente il potere in Italia è sempre stato detenuto da quattro soggetti: politici, Vaticano, imprenditori e banche. Potere che si sono spartiti, in fette uguali e non, a seconda dell’importanza che ognuno di questi soggetti rivestiva in quel dato momento storico. Sicuramente questo è il banca-time, se persino commediole di serie B come il recente All’ultima spiaggia di Gianluca Ansanelli vengono finanziate da ben tre istituti di credito e ciò dimostra come le banche si siano sostituite ai politici e agli imprenditori nel sostenere operazioni discutibili e destinate già sulla carta a non fare un euro di incasso, ma che vanno fatte per fare favori. Insomma, il vecchio e italianissimo clientelismo. Pratica che solo un ingenuo potrebbe ritenere estranea al mondo degli inserzionisti, che non sono ovviamente tutti mariuoli e faccendieri, ma forse sì un po’ condizionati, per dirla con Saviano, da «‘O sistema». Un sistema che mortifica la libertà economica e di concorrenza, azzoppando il pluralismo alla nascita.

È paradossale, infatti, che ci siano duecento canali televisivi in Italia su varie piattaforme, ma il novanta per cento sono riempiti di format e fiction d’importazione, mentre il resto è talk, quindi radio illustrata e non-televisione per definizione. Queste duecento isole dovrebbero dimostrare, accanto alle centinaia tra festival cinematografici ed eventi culturali annuali, che siamo il Bengodi del pluralismo, peccato, però, che a controllare tutta questa torta siano un pugno di aziende – banche soprattutto – che hanno tutto l’interesse a mantenere uno status quo classista dove di libero c’è ben poco. Di particolare attualità – triste, ma eterna attualità – suonano a tal proposito le dichiarazioni di un giovanissimo Walter Veltroni, che si lamentava già nel 1988 del tetto pubblicitario non rispettato dal Cavaliere, suscitando la risposta lungimirante del Gatto Mammone Giuliano Ferrara: «Ma non sarà che siamo all’avanguardia?» (qui il video).
Solleticato dalla voglia di saperne di più, ho pensato di realizzare qualche tempo fa una serie di interviste ai maggiori inserzionisti pubblicitari italiani, a cominciare dalla Barilla, presa di mira da Beppe Grillo in questo divertente monologo tratto dal Festival di Sanremo del 1989 (qui il video).
Purtroppo mi sono dovuto fermare subito, perché nessun periodico e quotidiano ha dimostrato interesse per queste interviste e anche perché gli stessi investitori non hanno gradito molto il mio punto di vista. Il secondo della mia lista era Ferrero, che ha declinato gentilmente il mio invito, mentre quello che segue è il testo originale mai pubblicato dell’intervista a Giuseppe Morici, capo del marketing di Barilla. 

Quando si parla di televisione, Auditel, flop e cachet milionari delle star del piccolo schermo, è raro sentire l’opinione di chi sorregge di fatto tutta l’industria, i cosiddetti top spender, cioè le aziende che investono di più nel mercato televisivo. Morici, Chief Marketing Officer del Gruppo Barilla, la pubblicità televisiva è ancora la regina del vostro marketing mix?

«Si la televisione è ancora la regina del nostro mix. E credo lo rimarrà almeno fino a quando gli altri mezzi non riusciranno a soppiantarla non solo nella sua funzione di informazione e in quella di intrattenimento, ma anche in quella di storytelling. In fondo, l’uomo si distingue dagli animali perché racconta delle storie. Ecco, io credo che la tv potrà continuare a svolgere un ruolo primario fino a quando riuscirà a raccontare delle storie. Certo, poi, come tecnici del settore, sappiamo che la distinzione tra tv e altri mezzi digitali, verrà superata dalle soluzioni tecnologiche che già oggi assottigliano i confini tra i diversi strumenti e le diverse piattaforme. Ma se la tv riuscirà a continuare a raccontare storie, magari riuscendo a riunire le famiglie attorno a un unico schermo, forse rimarrà lo strumento principe».

Le campagne Barilla si sono sempre distinte per la rilevanza del messaggio e l’adesione al momento sociologico che si sta vivendo. Basti pensare ai caroselli degli anni Sessanta con Mina per arrivare agli spot capolavoro degli anni Ottanta firmati da Fellini e Ridley Scott con musiche di Rota e Vangelis sino a quello di Wim Wenders degli anni 2000. Nulla a che vedere con l’uso pretestuoso della figura femminile e gli ammiccamenti facili e volgari di tanti testimonial. In tal senso, come giudica oggi la qualità complessiva degli spot?

«Noi siamo parte in causa, sbagliamo come gli altri. Quindi non mi permetto di giudicare la qualità del lavoro degli altri. Posso certamente dire che la mia azienda, sia per scuola che per scelta della famiglia Barilla, cerca sempre di fare una comunicazione che sia sincera, nel dire alle persone poche cose vere, rispettosa, nel “mettere in scena” racconti in cui tutti i personaggi siano trattati con rispetto appunto, ed emozionale, che cioe’ provochi non solo convincimento razionale ma anche adesione emotiva. Inoltre, quando ci riesce, proviamo a fare anche comunicazione che non parli solo dei nostri prodotti ma parli anche al Paese, come in molti degli esempi che lei ha fatto. Lo abbiamo fatto con il Mulino Bianco degli anni ’70, narrando il desiderio di tornare alle radici della nostra società in un momento di grande difficoltà economica e sociale. Lo abbiamo fatto negli anni ’80 con le grandi campagne “Dove c’e’ Barilla c’e’ Casa”, che parlavano di un paese che “ce la stava facendo” ma che voleva mantenere i valori della casa e della famiglia. E speriamo di riuscire a farlo anche ora, in un altro momento di grande difficoltà della nostra società e della nostra economia».

La storia della pubblicità italiana si divide in due fasi: prima e dopo Berlusconi. Durante il monopolio Rai di Carosello, la Sipra obbligava chi voleva fare la reclame a fare anticamera per anni e solo dopo un’attenta indagine sui requisiti morali del titolare – in sostanza se fosse raccomandato da un onorevole o un vescovo – poteva entrare nella lista ristrettissima delle 100 aziende di Carosello-Land. Il fondatore Pietro Barilla, che non aveva di questi problemi, che rapporti ebbe con il colonnello Giovanni Fiore nella democristianissima Sipra di allora?

«Non sappiamo e non rispondiamo».

Racconta il Cavalier Francesco Rosario Averna di aver dovuto comportarsi da buon cristiano, di fare la comunione nelle feste comandate e di seguire con assiduità la messa per convincere Fiore a fargli fare Carosello. Lei pensa che questo modo di fare abbia di fatto bloccato e impedito per molti anni la crescita dell’economia italiana e in particolar modo il consumismo legato alla grande distribuzione?

«No, il nostro Paese è stato sotto gli occhi ammirati del mondo intero in due momenti, da questo punto di vista, molto diversi tra di loro: gli anni ’50 e gli anni ’80. Nei primi, i costumi erano quelli dell’Italia tradizionale, le coppie di fidanzati per baciarsi dovevano andare alla stazione e confondersi tra i viaggiatori in partenza, nei secondi imperavano Drive In e la Milano da bere. Il che credo dimostri che – a fare la differenza – sono le idee e le strategie e non gli strumenti di marketing a disposizione. Nel primo caso, gli anni ’50, le strategie erano la industrializzazione del paese, il suo inserimento nelle economie occidentali, il percorso verso il benessere di milioni di italiani che uscivano dalla povertà, le grandi idee-prodotto del mondo dei beni durevoli. Nel secondo caso, la modernizzazione del Paese, il largo consumo, la moda, il made in Italy, i servizi, la laicizzazione dei costumi. Insomma, il marketing e i suoi strumenti supportano, con i mezzi a disposizione, le idee e le strategie del momento. Quel che fa la differenza sono queste ultime, non gli strumenti di marketing».

La rivoluzione della tv commerciale porta in poco tempo a un migliaio le aziende che investono in televisione. Molte di queste non hanno mai fatto pubblicità e in pochi anni aumentano vertiginosamente i propri fatturati, creando centinaia di migliaia di posti di lavoro. Sono gli anni ’80, Craxi è al potere e Berlusconi è l’uomo da 300 colazioni di lavoro all’anno. Scavalcando le agenzie di pubblicità, Berlusconi invita direttamente nella sua villa di Arcore gli imprenditori e i dirigenti d’azienda più recalcitranti per convincerli a lasciare la Rai e passare al Biscione. Come andarono i primi tentativi di abbordaggio con il vostro gruppo?

«Sicuramente quegli anni furono anni di grande crescita per la Barilla, sia per la pasta che per Mulino Bianco. Altrettanto certamente la Barilla non era tra quelle imprese che si affacciavano per la prima volta alla pubblicità grazie alle nuove tv private. Quindi direi che l’approccio fu come al solito professionale ed equilibrato. Abbiamo cominciato e poi continuato a investire su un nuovo canale che registrava una crescita portentosa. Esattamente come stiamo facendo oggi sulle nuove tv e su internet».

In piena guerra televisiva tra Rai e Fininvest, la tv di Stato guidata da Agnes poteva contare su canone, pubblicità tabellare e sponsorizzazioni, mentre Berlusconi solo su queste ultime due forme di adv. Come conseguenza avviene il primo stravolgimento: sono gli investitori a mettere becco nelle scelte di programmazione. È vero quindi che i programmi venivano commissionati direttamente dallo sponsor, compresa la Barilla?

«Non sappiamo e non rispondiamo».

Nel 1984 nasce l’Auditel, ma è solo dal 1990 che comincia a diffondersi la cattiva abitudine di usare i dati di ascolto come parametro per indicare anche i gusti del pubblico. Nata come forma di convenzione statistica accettata da editori, emittenti e investitori, l’Auditel è da sempre legato ai risultati delle indagini Nielsen sui dati di vendita del prodotto reclamizzato. Per gli investitori è solo e questo e soltanto l’unico dato che conta quando si parla di adv televisivo?

«I dati Auditel sono un parametro quantitativo. L’indice di gradimento, che non c’è più, era un parametro qualitativo, credo molto utile anche e soprattutto per le televisioni. Lo strumento quantitativo misura in modo “oggettivo” le audience e da investitore posso garantire che la correlazione tra investimento, per come viene registrato da Auditel, e risultati di vendite è molto forte (se la pubblicità è buona e il prodotto valido). Però ciascuno di noi non è solo investitore. E’ anche cittadino, padre o madre, membro di comunità e come tale tutti noi abbiamo delle opinioni e dei punti di vista sulla società e su come vorremmo che fosse. Ecco, siccome i nostri investimenti in piccola parte contribuiscono a indirizzare il tipo di società in cui viviamo, le assicuro che noi in Barilla non usiamo solo Auditel per programmare i nostri spazi».

Nel 1990 la legge Mammì sancisce l’esistenza del duopolio televisivo di Rai e Mediaset sul quale si concentrano i maggiori investimenti a scapito degli altri media. Il conflitto di interessi di Berlusconi e la lottizzazione Rai danno vita a un sistema bloccato basato sull’eterna ripetizione di format e una progressiva omologazione dei contenuti. Per molti osservatori, le tariffe pubblicitarie vengono fissate sulla base di prezzi politici, in altre parole gli investimenti pubblicitari diventano una sorta di tangente in base al patto: “tu continui a pagare lo spazio sulle mie tv e io ti faccio lavorare senza problemi”. Uno scenario che emergerà con precisione negli anni successivi anche dalle intercettazioni telefoniche che vedono coinvolti politici, imprenditori e dirigenti tv. In questo “ricattificio”, non avete mai avuto esitazione nell’affidare i vostri investimenti a quei volti, programmi ed emittenti in odore di do ut des poco trasparenti?

«In Italia abbiamo spesso la tendenza a dipingere il quadro a tinte ancora più fosco di quanto già non sia. Badi bene, io credo che la questione morale, dei comportamenti della classe dirigente di questo paese sia il tema principale da cui discende tutto il resto. Però non dobbiamo neanche esagerare. Io faccio questo mestiere in questo paese da più di 15 anni e l’ ho fatto in aziende diverse ma ho sempre visto pianificare gli investimenti in modo professionale e razionale. Non escludo che sia accaduto anche il contrario ma non lo eleverei neanche a regola».

Negli ultimi dieci anni la crescita economica in Italia ha registrato i minimi storici. Nonostante Sky e La7, il mercato pubblicitario è ancora saldamente nelle mani di Rai e Mediaset e la recessione ha dato il colpo di grazia, facendo aumentare il ricorso all’acquisto di prodotto di importazione, a discapito della produzione interna. Nel 2009 Berlusconi invitò i leader pubblicitari a non investire sui giornali che parlavano della crisi economica. Morici, ora che Berlusconi non è più al potere, molti investitori hanno dichiarato di essere finalmente liberi di spendere i loro soldi dove e come vogliono. Questo forse dovrebbe dar vita a un sistema basato su un vero pluralismo, nonostante i 200 canali disponibili gratis e a pagamento sulle piattaforme digitali e satellitari. Ma lei se la sentirebbe di investire, ad esempio, su un esperimento di tv multipiattaforma come quello di Servizio Pubblico di Santoro?

«L’orientamento politico dell’emittente o del conduttore non è mai stato tra i parametri di valutazione degli investimenti della Barilla. Quello che ci interessa, oltre al numero dei contatti oggettivamente registrabili, è la qualità del contenuto televisivo e la capacità di questi contenuti di attrarre il target di consumatori delle nostre marche. Vogliamo che i nostri spot siano inseriti all’interno di trasmissioni e di palinsesti di qualità, per quanto possibile. Il resto non ci interessa. Noi eravamo liberi prima e lo siamo ora allo stesso modo. Più volte la Barilla, grazie anche alla dimensione dei nostri budget, ha investito in esperimenti televisivi, satellitari, digitali, internet. Ne misuriamo i ritorni e poi decidiamo se andare avanti o meno. Tutto qua».

Parma è la città dove è nata la Barilla. Parma è anche la città del crac Parmalat e del nuovo sindaco a 5 Stelle Federico Pizzarotti. A unire questi tre soggetti è lui, Beppe Grillo, che non ha mai risparmiato critiche nei confronti del gruppo di Tanzi e della Barilla, accusata nel ’97 di finanziare le guerre attraverso il suo socio armatore Walter Wurth. Grillo e il suo Movimento 5 Stelle hanno annunciato anche la riforma del settore tv. Secondo lei questo sistema basato ancora su sette reti nazionali e i canali digitali ad essi legati ha quindi le ore contate?

«Premesso che un settore media più plurale e con un grado di concentrazione inferiore delle audience andrebbe a tutto vantaggio degli investitori, credo che l’attuale assetto non abbia le ore contate. Non ci sono solo le regole a proteggere gli attuali leader di mercato. Ci sono anche i loro brands, le loro capacità, le loro libraries, la loro capacità finanziaria. In questo momento di difficoltà economica, anche se la regolamentazione si aprisse a un grado ancora maggiore di pluralità, non credo che sarebbe facile per chiunque creare velocemente grandi poli alternativi. Certo che i player internazionali o i canali tematici potrebbero gradualmente svilupparsi».

Tornando infine al web, negli Stati Uniti questo è stato l’anno delle prime presidenziali totalmente condizionate dai social network. Per molti osservatori i likes di Facebook e i tweets di Twitter sono stati più importanti dei ratings televisivi. In un paese poco propenso ai cambiamenti come il nostro, pensa che sia possibile a breve raggiungere un nuovo modello di business basato sulla tv connessa al web che per forza di cose prevede la frammentazione dell’ascolto?

«In questo caso la mia risposta è si. Gli italiani hanno dimostrato sia con la telefonia cellulare di prima e di ultima generazione, sia con l’uso dei social networks di essere molto avanzati come utenti. Forse questo tipo di sviluppi solletica un tratto genetico della nostra società e della nostra cultura, che è quello della connettività e della attitudine allo scambio. Di idee, di informazioni, di notizie, di immagini. Credo che l’Italia potrà essere all’avanguardia o comunque al passo coi tempi della fusione tra i mezzi. Spero che la capacità di generare contenuti interessanti proceda di pari passo con la possibilità di mettere in onda nuovi contenuti. Se osservo il traffico di contenuti oggi su molti social media, ho l’impressione che ci siano molte più opportunità di parlare che cose (interessanti) da dire!».

Come cambia in tal senso l’investimento di un top spender come Barilla in uno scenario dove davanti alla tv ho la possibilità di avere maggiori contenuti, poter commentare, votare, influenzare in qualche modo i programmi, giocare al game show, parlare coi partecipanti e con gli ospiti grazie alle estensioni forniti dal computer, i tablet e gli smartphone?

«Cambia in tanti modi. Ed è già cambiata. Abbiamo cominciato a investire nel mondo digital da diversi anni in modo abbastanza pioneristico in Italia nel nostro settore. E abbiamo ormai un gruppo di marketing, di media planning e di marketing digitale tra i più attivi nel campo. In questo scenario occorre sperimentare, osare, e misurare. Spesso chi decide in azienda, per motivi generazionali, non sa di queste cose e quindi bisogna ascoltare molto, fidarsi, capire almeno la logica e poi misurare. Fare marketing in questo mondo non è più complicato degli anni ’80. È molto più divertente. Ma bisogna attrezzarsi bene e diversamente».

 

twitter@LucaMartera

 

(Nella foto il logo Auditel)